Meno privati, meno pubblico. Lo sponsoring negli Anni Dieci
Come la crisi sta cambiando la cooperazione pubblico-privato per la cultura? Chiara Tinonin e Catterina Seia hanno sentito per Artribune alcuni esperti in materia. Per fare il punto sulla situazione e immaginare scenari futuri.
Se lo Stato fa tagli lineari alla cultura siamo pronti a batterci contro la miopia di una spending review che non comprende che senza cultura non si esce dai guai. Quando, però, questa stessa spending review taglia la sanità, l’assistenza sociale, la tutela ai lavoratori, non possiamo che sperare nell’intervento dei filantropi e degli imprenditori.
Con la crisi, abbiamo visto avanzare il privato – i singoli più delle imprese – là dove lo Stato è arretrato. “In questo periodo stiamo assistendo a un vero e proprio rilancio della filantropia per l’intervento di singoli privati. Da un lato è diffusa la sensazione che i governi manchino di dinamismo nel rispondere alle domande urgenti della società. Dall’altro cambia la figura del filantropo, che oggi agisce sempre meno su sollecitazioni di terzi e sempre di più come creatore di modelli replicabili per dare soluzioni ai problemi”, ci spiega Elisa Bortoluzzi Dubach, docente universitario di sponsorizzazioni e fondazioni e consulente di riferimento a livello europeo. “Questi modelli sono necessari anche per la cultura, che in questo momento ha bisogno di una sostenibilità che non si ottiene con attività di fundraising mirate a finanziare singoli progetti, ma con il coinvolgimento del tessuto imprenditoriale e filantropico in visioni concertate e strategie chiare, realizzabili in modo semplice e mirate alla valorizzazione delle istituzioni stesse sul lungo periodo”.
Fino al recente passato i privati sono intervenuti più volentieri là dove c’era una presenza pubblica, considerata una garanzia di qualità e interesse diffuso. Oggi, però, assistiamo a un fenomeno inverso: un minore intervento privato nella cultura spinge verso un minore intervento pubblico. Una considerazione che negli Stati Uniti è stata quantificata dall’Hauser Center for Nonprofit Organizations di Harvard in un rapporto preoccupante: senza finanziamenti privati, un’organizzazione culturale statunitense perde metà del suo finanziamento pubblico.
A differenza del vecchio continente, è cosa nota che negli Stati Uniti “le arti sono trattate come un bene pubblico e finanziate come un bene privato”, come ha detto Jim Bildner, senior researcher dell’Hauser Center, presentando lo scorso marzo SustainArts un progetto di ricerca per analizzare i collegamenti tra i finanziamenti pubblici e privati alla cultura, la partecipazione culturale dei cittadini e la vitalità delle nuove produzioni artistiche in alcuni grandi centri urbani d’America.
Che cosa scopriremmo se adottassimo questo studio anche in Italia?
Qui iniziamo solo ora a comprendere che senza partecipazione attiva e strategia di territorio non è più pensabile un sistema welfaristico efficace per le arti e la cultura. Se guardiamo al ruolo dei privati, “il supporto della cultura deve prima di tutto contribuire a rafforzare l’autonomia delle istituzioni culturali”, dice Dubach, “spostando il piano di finanziamento dell’istituzione culturale verso una sempre maggiore autosostenibilità da entrate proprie, diversificando i servizi. Pensiamo a quanto le imprese possono fare per rendere accessibili ai giovani contenuti culturali attraverso le nuove tecnologie”. D’altro canto, anche le istituzioni culturali devono rileggersi e darsi una strategia, “progettando in modo nuovo verso la costruzione di un baricentro di possibilità: co-progettazione e storytelling con le imprese, condivisione di senso con le persone, facendosi carico di leggere i bisogni del territorio”, ha detto Alessandro Bollo, direttore di Fondazione Fitzcarraldo.
Per tornare a Harvard, alla tavola rotonda dell’Hauser Center Carol Coletta, presidente di ArtPlace, una fondazione americana privata che negli ultimi due anni ha finanziato circa 80 progetti in 46 comunità per 29 milioni di dollari, ha voluto sottolineare la centralità dell’offerta culturale per la vitalità dei luoghi, tanto che le arti “dovrebbero essere considerate nel portafoglio strategico per la trasformazione urbana”. Infatti, “sempre di più le persone non distinguono tra organizzazioni culturali non profit e for profit quando pensano a che cosa fa di un luogo un grande luogo. A volte non lo fanno nemmeno tra un bellissimo caffè e una galleria d’arte: è tutto parte della stessa percezione”, ha aggiunto.
In questa direzione la cooperazione pubblico-privato italiana potrebbe fare passi da gigante: fare leva sulla cittadinanza attiva, la partecipazione, il radicamento delle persone ai propri luoghi. Non a caso il BMW-Guggenheim Lab, con il recente workshop di Mumbai, ha lanciato Is Your City Public or Private?, una piattaforma online per raccogliere (e mappare) la percezione degli utenti sulla privacy dei luoghi pubblici della città che abitano. Una bella co-progettazione di un’impresa e un museo globali, che porta là dove si crea il futuro. E alla loro domanda posso rispondere con il cellulare, il tablet o il classico pc.
Va in questa direzione A prova di sponsor, la giornata realizzata dal Giornale dell’Arte in collaborazione con la Fondazione Fitzcarraldo, che ha messo in relazione le istituzioni culturali e i potenziali investitori.
Chiara Tinonin e Catterina Seia
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