Metapadiglione alla Biennale. Katrín Sigurdardóttir per l’Islanda
Katrín Sigurdardóttir rappresenta l’Islanda attraverso il contrasto. “Foundation” unisce l’opulenza dei padiglioni settecenteschi alla serietà del lavoro nella Lavanderia di Palazzo Zenobio. E la cocuratela è di Ilaria Bonacossa. Abbiamo intervistato l’artista.
Alla 55. Biennale di Venezia, la presenza islandese è affidata a Katrín Sigurdardóttir, artista nata a Reykjavík nel 1967. L’installazione proposta a Venezia sarà poi esposta in Islanda e negli Stati Uniti, conservando tracce e memoria delle precedenti variazioni.
La ricerca di Sigurdardóttir è una riflessione su come la memoria, la distanza e l’emotività influenzano lo spazio. A Venezia un’ulteriore tappa di questo percorso: partendo dalla forma classica del Padiglione settecentesco, l’artista ha realizzato una piattaforma sospesa di circa 90 mq, rivestita da formelle artigianali realizzate assieme al suo team, a creare un motivo ispirato al barocco. L’installazione mette in comunicazione l’interno e l’esterno della Lavanderia di Palazzo Zenobio ed è accessibile attraverso una scala che parte dal giardino. Il pubblico, entrando attraverso le porte ridotte a causa dell’altezza della pavimentazione, è costretto ad abbassarsi e rialzarsi, cambiando il proprio punto di vista. Foundation riproduce a Venezia uno degli elementi che caratterizzano il lavoro della Sigurdardóttir: il fattore sorpresa spesso ricercato nelle sue opere attraverso l’utilizzo di scale o sproporzioni stranianti o come in questo caso di contrasti.
Mi racconti della genesi del tuo progetto e la scelta della location della Lavanderia?
Foundation è nato proprio come una risposta alle sollecitazioni che il luogo mi ha dato quando l’ho visto. La vegetazione del vecchio giardino e l’ambiente circostante di questa parte di Dorsoduro hanno giocato a loro volta un ruolo importante nell’ideazione. Questa è quella che considero “Venezia bella”, lontana dai percorsi del turismo di massa e dei suoi grandi numeri. È la Venezia “più vera”, dove le superfici anche meno conservate sono comunque testimonianze della storia della città. Questo emerge nella Lavanderia, che sembra in un certo senso una sorta di rovina. Desideravo lavorare in un ambiente che conservasse il più possibile il suo aspetto antico, in grado di testimoniare una “storia ininterrotta” della vita che vi si è svolta. Al tempo stesso desideravo che si trattasse di uno spazio non troppo definito, che avesse in sé una vaghezza, in grado di lasciare spazio alla possibilità di contemplazione.
Come si è sviluppata la collaborazione con le curatrici del progetto e in particolare con Ilaria Bonacossa?
Si è trattato di un processo lungo un anno e mezzo, durante il quale abbiamo lavorato molto assieme. Il mio rapporto lavorativo con Ilaria è iniziato a Torino dieci anni fa, quando ci incontrammo in occasione di Artissima per poi ritrovarci un anno dopo per realizzare un’esposizione alla Fondazione Sandretto. Da allora abbiamo lavorato assieme in numerose altre occasioni e considero la nostra collaborazione molto significativa e importante, poiché negli anni Ilaria mi ha aiutato a sviluppare alcuni dei concetti chiave della mia ricerca. Conosco Mary Ceruti dai tempi in cui vivevo a San Francisco, agli inizi degli Anni Novanta, è la direttrice e curatrice dello Sculpture Center di Long Island, che si occupa in particolare di scultura contemporanea e sperimentale. Questa però è stata la prima volta che abbiamo lavorato assieme.
L’intero progetto è sviluppato attorno al concetto di Padiglione inteso in senso settecentesco, solitamente sinonimo di ufficialità, sfarzo e celebrazione, che tu hai declinato in un luogo non deputato all’ufficialità. Il contrasto è quindi una delle chiavi di lettura principali di questo tuo lavoro?
Sì, in molti sensi il lavoro è un’interpretazione del concetto tradizionale di “padiglione” e di tutto quello che simboleggia: opulenza, potere, intrattenimento… Così ho cercato di contrastare tutte queste caratteristiche, collocando l’installazione in un edificio che normalmente era destinato a funzioni totalmente contrapposte e che rappresenta il lavoro e la servitù. Penso proprio che uno dei nuclei di questo progetto sia il contrasto che nasce tra le immagini che evoca comunemente tra l’idea del Padiglione visto come una sede dell’ufficialità e la volontà di “utilizzarlo” in un modo differente dando origine a tutto un nuovo corollario di significati e suggestioni.
Come è nata l’idea di far viaggiare Foundation esponendola in altre sedi dopo Venezia? In che modo le diverse esposizioni saranno collegate tra loro?
Quando mi è stata presentata l’opportunità di far viaggiare il progetto concepito per Venezia portandolo in due altre sedi a Reykjavík e allo Sculptur Center di Long Island City, ho pensato fosse davvero interessante lasciare al lavoro la possibilità di continuare a svilupparsi piuttosto che limitarmi a realizzare una copia da esporre in altri luoghi dopo la Biennale. Foundation riguarda anche i temi legati alla memoria e li sviluppa su numerosi livelli e questo aggiunge un ulteriore livello alla riflessione: l’opera infatti non solo commemora i padiglioni dell’era barocca ma anche i nuovi “padiglioni” contemporanei nei quali verrà esposto, conservando ogni volta le tracce dell’esposizione precedente.
Valeria Barbera
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