Prendete questa foto scattata a Gérard Depardieu mentre mostra orgoglioso alla stampa il suo nuovo passaporto russo. Sta esibendo un altro sé, quello della fototessera sul documento, completamente diverso da se stesso. Il Depardieu gigante è paonazzo, con i capelli in disordine e i denti gialli, i lineamenti come sepolti e ricoperti da questa gran massa che è il viso irriconoscibile. E irriconoscibile è il Depardieu istituzionale, nella foto piccola (sul documento, in basso al centro della foto grande): il Depardieu attore, “spettacolare”, il Depardieu-immagine.
La fototessera – un’immagine fotografica la cui funzione è testimoniare l’identità – è una memoria: la traccia di un’identità perduta, o meglio ancora, immaginaria. Un passato che comincia a farsi idealizzato (e forse lo è sempre stato), ma che in questo processo non si sfoca: si iperdefinisce, anzi. A essere stranamente fuori-fuoco è l’immagine-identità del presente, questo faccione sempre più simile all’Obelix dei fumetti, questo faccione così reale e quadridimensionale.
Il tempo è il fattore-chiave di questa foto: il tempo è il discrimine tra i due Depardieu. Il tempo li separa, e al tempo stesso li differenzia. Il Depardieu reale, in rovina, è drammaticamente simpatico perché si sottopone quasi con voluttà all’azione del tempo. Consegnando la sua identità cinematografica, spettacolare, “in forma”, al documento. Un passaporto che gli consente, a questo punto, non solo spostamenti geografici ma le più essenziali transizioni dal territorio reale a quello finzionale, e ritorno.
Un dialogo tra dimensioni esistenziali e temporali che ritroviamo, per esempio, in quest’altra foto: Berlino, 9 novembre 1989. Il muro di Berlino non crolla, e neanche viene abbattuto. Comincia a essere “ritagliato”. Il pezzo di muro scende, viene tirato giù come se fosse il portellone di un’astronave: l’astronave (storica) è la DDR, la Repubblica Democratica Tedesca, e gli alieni (storici) sono questi giovanissimi soldati. Che hanno dipinta in volto un’espressione indefinibile, misteriosa: certamente non contenta né sollevata. In questo momento, stanno facendo esperienza dell’Altro (dall’altra parte, che non sarà più tale da ora in poi), stanno guardando questi Altri e al tempo stesso stanno guardando evaporare il mondo in cui sono cresciuti. Gli Occidentali, una folla, li scoprono: e questi quattro soldati sono composti, di un’eleganza siderale, destinata anch’essa a scomparire in brevissimo tempo. In quest’attimo congelato, due tempi storici si sfiorano, prima di dissolversi fondendosi.
Così, l’(auto)ironico Barack Obama che mima la posa della statua di Superman alle sue spalle è ambivalente: un presidente-supereroe che evoca i superpoteri per combattere la crisi e le sfide del XXI secolo. Sa benissimo che i superpoteri non esistono: e improvvisamente lo sappiamo anche noi. È magro come un chiodo, ha la canonica camicia con le maniche arrotolate e quell’altro invece la tuta aderente e dai colori sgargianti. Gli anni delle magnifiche imprese e delle epoche miracolose sono alle spalle, come Superman: questo presente non lascia scampo al presidente preoccupato, che sta realizzando un’immagine scherzosa ma non sta sorridendo. Come sorride invece il Noodles di C’era una volta in America (Sergio Leone 1984), che ha fregato il tempo, la morte e l’idea stessa della sconfitta. Max gli ha tolto tutto, e lui è “andato a letto presto”, in un facsimile di esistenza. Lui ha saputo sganciarsi dal suo presente angosciante (si è nascosto nella fumeria d’oppio perché i cattivi vogliono farlo fuori) andando avanti e indietro nei decenni, e quel sorriso è così segreto e minaccioso proprio perché a noi rimarrà sempre il dubbio che abbia sognato tutto: che la vita, gli eventi e la storia siano una sua proiezione immaginaria, una sua meravigliosa paranoia.
Che la mente abbia creato integralmente il mondo.
Christian Caliandro
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati