Nati sotto Saturno. Intervista a Franca Valeri
93 anni a luglio, la più grande comica italiana è in tournèe con la sua ultima creatura teatrale, “Non tutto è risolto”, nella quale interpreta un toccante ruolo autobiografico. A Napoli, dove ha ricevuto un’accoglienza calorosa che la rende entusiasta, la incontriamo per una breve chiacchierata su arte e dintorni.
Quando è nata la fascinazione per l’arte? Ad esempio, con le imitazioni degli insegnanti a scuola?
No, quelle erano piccoli pretesti per autocontrollarsi. In realtà, la cosiddetta vocazione più che altro è una natura, una tendenza. Credo di averla sempre avuta.
Non crede nelle scuole di recitazione?
Non è facile insegnare, si può venire incontro a delle piccole difficoltà tecniche, ma in realtà non è che un maestro ti può suggerire un modo d’interpretare. Tuttalpiù, puoi studiare tecnicamente come usare la voce, la giusta pronuncia. Io ho la fortuna di averle apprese vivendo, ma molti ne hanno bisogno. Alcuni sono anche un po’ rovinati dall’influenza dei maestri, ci vuole una personalità molto precisa da non caderci.
Nel suo libro (Bugiarda no, reticente) scrive: mio padre era molto ironico e chi ha quel dono non è mai estroverso. Questa frase ne ricorda una di Mariangela Melato, la quale affermava che l’attore deve essere fondamentalmente un timido. Lei è d’accordo?
Non è che deve essere. È, spesso, un timido. Se non lo è, pazienza. Però è meglio se la sua estroversione nasce da una fondamentale prudenza nell’esprimersi. Perché spesso ci sono attori che sono troppo estroversi e a discapito poi dell’interpretazione. Io penso che fondamentalmente gli attori più son bravi, più son timidi.
E la fascinazione per il teatro? Ricordando la sua prima volta alla Scala, ha dichiarato di aver avuto l’impressione di trovarsi davanti a degli amici quando l’orchestra è uscita da dietro le quinte, capendo il loro rispetto per il luogo sacro.
Prima di conoscere il teatro, era una grande suggestione. Credo che ce l’abbia ancora, nonostante la televisione, il cinema, l’online, tutte quelle sciocchezze lì. È secolare, è un luogo che è nato con l’uomo.
E morirà con l’uomo?
Speriamo di no! (ride)
Lei ha esordito nella Paris degli esistenzialisti, al Quartier Latin. Ha avuto modo di conoscere Sartre, che ne era il nume in quel periodo?
Sì, l’ho conosciuto, con Simone de Beauvoir, che era una donna straordinaria. Ma li ho conosciuti non in profondità. Ho letto più lei di lui. Venivano spesso a Roma, e li vedevo seduti a un famoso caffè che stava proprio di fronte a casa mia. Stavano lì a prendere il sole, nella primavera romana, quando c’era. Perché a Roma non c’è più neanche quella condizione (ride). Erano una coppia indubbiamente di cui sentivi l’importanza.
Com’è cambiata Parigi in questi decenni? Ci ritorna ogni tanto?
Sì, ogni tanto. È cambiata, come tutto cambia. Ma ancora la sua tradizione aleggia. Ogni apporto culturale, anche architettonico, è stato fatto con molta cura. Non è stata devastata, come tante nostre città.
A proposito dei caffè romani, lei nel suo libro ne parla come luoghi di ritrovo di scrittori, critici, registi, attori. Mesi freddi e freschi, via Veneto, estate piazza del Popolo: “Tutto questo è veramente finito[…]. Gli intellettuali, se ce ne sono ancora, si telefonano”.
Sa che era molto importante questo ritrovarsi? Senza appuntamento, andavi lì e li trovavi o loro sapevano di trovare te. Nei secoli c’è sempre stato un luogo dove un certo mondo si ritrova. Adesso è un po’ sottovalutata questa possibilità. Poi c’è questa infernale online che è certo comodissima, importantissima, una grande invenzione, ma anche una rovina. Io non ho un computer, non lo saprei usare, ma ricorro alla sua utilità perché ho tanti amici che mi aiutano, ormai è difficile farne a meno completamente. Però ci sono tanti ragazzi che si ammalano di mal di schiena perche stanno tutto il giorno davanti a un computer. Questo è assurdo! Come anche, se fai caso, vai a un ristorante, io sto lì in un angolo e gli altri stanno tutti con il telefonino in mano. Non è possibile che abbiano necessità, è un vizio. Ormai è un vizio. Pazienza, passerà…
Oltre ad essere affascinata dagli artisti, in realtà lei in alcuni dei suoi film li ha presi anche in giro. Come ad esempio in Totò a colori, dove interpreta il personaggio di Giulia Sofia, che nella sua villa di Capri accudisce un baby orso e ospita una serie di debosciati, tra cui alcuni artisti, e si innamora di Pupetto Montmartre di Champs Elysees (Totò). Gliela avranno fatta in tanti questa domanda nel corso degli anni, ma com’è stato rapportarsi col Principe, abituato ad essere capocomico, spesso l’unico in scena, qui costretto a confrontarsi con una collega, per giunta di vent’anni più giovane?
La mia anomalia è stata anche il mio successo. Non era frequente che una donna giovane, non mostruosa, avesse il ruolo di contro-comico. Anche con Sordi in fondo lo è stato. Abbiamo costituito una coppia perché c’era una che poteva fare sua moglie. Totò era un caso un po’ speciale, non era un tipico comico, era una maschera. Sul piano umano non avrei saputo come sistemarlo, era sempre sul piano della maschera. Comunque siamo stati molto bene insieme, era simpaticissimo. Parlavamo molto di cani.
In quel meraviglioso film che è Il segno di Venere, ci sono due momenti dove si fa riferimento al mondo degli artisti. Il primo è nella festa, quando lei, Sordi, la Loren e Peppino De Filippo siete alla festa in casa di alcuni artisti. Il secondo è quando il suo personaggio, Cesira, leggendo la mano ad Alessio Spano (Vittorio De Sica), dice: “Si vede che è un artista lei, mano sensibile, articolata, sinuosa“. Cesira vuole uscire dal suo piccolo mondo borghese, ed è affascinata dall’arte, dalla creatività di Alessio. Quanto di lei c’è nel personaggio sognatore di Cesira?
Il personaggio della Cesira è quello dell’illusa, della sempre disposta a sperare, che è un po’ tipico delle ragazze del nord. Era ottimista. È chiaro che non mi assomiglia in quanto io ero per natura dalla parte dell’artista. E poi De Sica… è forse il mio unico maestro in un certo senso. La sua bravura! Era veramente un amico straordinario. Era proprio un artista spontaneo, intelligente. Che poi non era un uomo di cultura, De Sica. Era proprio la sua natura.
Anche Chaplin non era un uomo di cultura, ma era un genio. Ricorda il vostro incontro?
Ah, (ride) al di sopra! Ispirava a vederlo. Un’originalità incredibile.
In quell’occasione conobbe anche Marlene Dietrich. Che impressione le fece?
Lei era la vera diva, con tutte le debolezze anche. Non sembrava una donna sicura, era conscia del suo mito, bella già invecchiata, un po’ insicura, un po’ fragile. E poi in quella serata c’era quell’altro colosso che era Laurence Olivier, l’uomo più bello che abbia mai visto. Quel giorno che l’ho incontrato a casa di Zeffirelli era un’apparizione. Per il suo personaggio, per il suo tipo, la bellezza è una cosa che certamente gli ha giovato molto.
Oltre a quella musicale e letteraria, ha avuto anche un’educazione artistica, nel senso di arte figurativa?
Meno, anche se fin da bambina mi hanno portata nei musei a vedere delle mostre. La mia famiglia non era una famiglia di intellettuali, i miei genitori erano però molto attenti alla mia educazione e trovavano necessario che i bambini andassero a vedere i Musei Vaticani o il Louvre a Parigi. Non hanno trascurato niente per farci una base nel cervello.
L’arte contemporanea le piace?
L’arte contemporanea è meno affascinante. Anche perché ha attraversato delle crisi violente. Dopo Picasso, dopo quella generazione lì, non è uscito un nome della pittura. Siamo stati fortunati ad avere un primo Novecento importante, poi una botta di arresto impressionante sia nell’arte figurativa che nella musica. Sì, a un certo punto, siamo costretti a rappresentarci nei Beatles, piuttosto che in Wagner.
Come vede l’Italia di oggi, questa situazione di stallo politico?
È un momento tra i peggiori che si possa immaginare. Per una persona della mia età che ha vissuto delle crisi terribili, addirittura una guerra… Eppure è difficile non misurare la vastità della crisi. Non è solo la crisi finanziaria, la crisi cosiddetta, è una crisi politica devastante. Veramente chi ha vissuto tempi umanamente giustificabili finisce che si ritira in un angolo in attesa, perché è difficile partecipare. Io sono fondamentalmente per le sinistre, però non è che siano rappresentate in un modo… ineccepibile.
Una definizione di artista. Che cos’è per lei un artista? Che cosa rappresenta?
Fondamentalmente è chi può giovarsi di una libertà spirituale, intellettuale, che sfida qualunque convenzione. L’artista è veramente il vero uomo libero, o donna che sia.
Giulio Brevetti
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