Padiglioni: attualità di un anacronismo
Nel 1895 nasceva la Biennale di Venezia, la più antica tra le mostre ricorrenti. Sulle orme delle grandi esposizioni universali che incarnavano il mito moderno dello scambio e del confronto tra nazioni, l'Italia cercava di trovare con la Biennale un cemento culturale a giustificazione della sua recente unità e una riconoscibile identità da opporre a quelle che Francia o Inghilterra, con contorni più marcati, già proponevano al mondo.
Anche attraverso la Biennale di Venezia, Venezia, città d’arte, cercava di trovare un nuovo ruolo fertilizzando un terreno in cui affondavano profonde radici. Altri tempi, altre esigenze.
Negli ultimi tre decenni sono comparse capillarmente in giro per il mondo una miriade di nuove manifestazioni che, a partire dalla formula veneziana, si sono evolute in una vera e propria categoria di esposizioni che, sotto l’etichetta biennale (o a volte triennale, quadriennale), sono diventate una formula vincente in grado di richiamare pubblico, attenzione della stampa, sponsor, collezionisti. Semplificando il problema, si potrebbe affermare che il fenomeno delle Biennali sia nato per presentare il panorama in atto, le emergenze dell’arte, i nuovi artisti, temi e soggetti che prima non rientravano nel panorama di competenza dei musei i quali, tradizionalmente, avevano il ruolo di storicizzare e conservare, non quello di offrire uno spazio alla sperimentazione. Recentemente tale barriera è palesemente stata abbattuta e la distanza fra l’attività museale e quella delle mostre periodiche si è fatalmente ridotta, tanto da indurre a un generale ripensamento del ruolo stesso delle biennali. Anche perché siamo di fronte a una certa omogeneità nelle proposte avanzate da manifestazioni che spesso sono ricordate più per l’egemonia curatoriale che per la qualità dell’offerta artistica.
In questo panorama, la Biennale di Venezia sembrerebbe dover soffrire anche più delle altre “più giovani” rivali internazionali, soprattutto per il retaggio ottocentesco della divisione in Padiglioni nazionali, che potrebbe costituire un ingombrante fardello nel compito di rappresentare i processi dinamici del panorama artistico in fieri. Paradossalmente, però, proprio questa caratteristica, sulla carta così poco sintonica al glamour multiculturale internazionale, negli ultimi anni si sta rivelando una risorsa anche per la possibilità di limitare la “dittatura del curatore” – giocando sul titolo di una recente Biennale di Venezia – in favore di una polivocità complessiva della proposta che alla lunga si sta rilevando una ricchezza e non più un anacronismo.
Anche a confronto con la monolitica struttura di Kassel, che personalmente nelle ultime due edizioni non mi ha convinto fino in fondo, il fascino multiforme e contraddittorio della vecchia signora lagunare sembra rimanere intatto. I padiglioni, infatti, avendo perduto con il passare degli anni quella necessità intrinsecamente nazionalistica di presentare il meglio di sé esclusivamente in termini positivi e acritici, si sono trasformati, in molte occasioni, in laboratori di sperimentazione che entrano in relazione dialettica con la mostra concepita dal direttore, relativizzandola e, proprio per questo, arricchendola grazie a un confronto ravvicinato che nessun’altra biennale è in grado di offrire allo spettatore.
Roberto Pinto
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #13/14
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