Richard Prince e la rivincita dell’appropriazionismo
Cariou vs Prince: la Corte d’Appello americana ci ripensa e sgombera la strada all’appropriazionismo. Un famoso caso di controversia legale in campo artistico diventa lo spunto per riflettere sui limiti del riuso di immagini altrui nell’opera degli artisti contemporanei. Anche i tribunali, sembra, cominciano ad abbassare la guardia.
Il 25 aprile 2013 la sentenza della Corte d’Appello degli Stati Uniti, 2d Circuit, ha ribaltato quanto affermato in primo grado dal tribunale di New York nel 2011 nel caso Patrick Cariou vs Richard Prince, fornendo i termini per una riconsiderazione dal punto di vista giuridico dei limiti della pratica appropriazionista.
La vicenda è nota, ma ricapitoliamola brevemente. Dopo aver trascorso sei anni fra i Rastafarian jamaicani, guadagnandosi la loro fiducia, il fotografo Patrick Cariou pubblica nel 2000 un libro fotografico di ritratti e paesaggi dal titolo Yes Rasta. Richard Prince (artista appropriazionista nel Dna) fra il 2007 e il 2008 utilizza complessivamente 41 immagini tratte da questo libro per realizzare il ciclo di opere Canal Zone, prendendone alcune integralmente ed altre in frammenti e rielaborandole, più o meno pesantemente, con interventi pittorici e collage.
Alcuni dei lavori appartenenti a Canal Zone vengono esposti nel 2008 dalla gallerie Gagosian a New York e riprodotti nel catalogo della mostra edito da Rizzoli. A questo punto Cariou cita in giudizio Prince, Gagosian Gallery, Larry Gagosian e Rizzoli davanti alla District Court di New York per violazione del diritto d’autore.
Il punto centrale della controversia sta nel valutare se l’uso delle foto di Cariou da parte di Prince possa o meno essere ritenuto “trasformativo” e come tale essere qualificato come un fair use, cioè un uso lecito , dell’opera precedente e dunque non in violazione del copyright.
La Corte distrettuale, nel giudicare il caso, si muove sostanzialmente nel solco di alcuni dei precedenti giurisprudenziali in materia e conclude il primo grado decisamente in favore di Patrick Cariou. Da una lettura dei parametri del fair use test contenuti nel Copyright Act del 1976 e della giurisprudenza precedente, si ritiene infatti che l’opera successiva, per costituire un uso trasformativo dell’opera precedente e rientrare così nell’eccezione di fair use, debba essere un “comment” dell’opera “appropriata”. Solo in questo senso l’uso di opere altrui risponderebbe all’esigenza (considerata un contro-valore rispetto al copyright, tutelato appunto dai principi del fair use) di consentire ad artisti successivi di esprimersi liberamente attraverso l’uso critico del materiale appropriato (parody defence). Prince però, anche attraverso la testimonianza resa in primo grado, non dimostra alcun intento di “dialogo” specifico con le immagini di Cariou e con il loro significato estetico. Per questo, il suo uso delle immagini del fotografo viene considerato inammissibile e dunque sanzionato, affermando a chiare lettere che in generale è da escludere che l’appropriation art possa essere considerata di per sé un fair use, a prescindere dal fatto che il nuovo lavoro sia o meno un commento del precedente.
La sentenza della Corte d’Appello segna invece un passo decisivo e condivisibile nel superamento di questo approccio restrittivo alla creatività successiva, e comprende in maniera più profonda i metodi, le esigenze estetiche e la poetica dell’appropriazionismo. I giudici di secondo grado riducono fino a farlo scomparire il requisito del “commento” dell’opera altrui (ancorando peraltro l’argomento a una diversa interpretazione letterale della norma sul fair use, supportata dalla stessa Corte Suprema) e si concentrano esclusivamente sull’originalità dell’opera successiva, sul suo nuovo significato, sul suo carattere trasformativo (pienamente riconosciuto, nel caso di specie, per la siderale distanza tra il ritratto idilliaco della naturale bellezza dei Rastafarian e dei loro paesaggi, fornito da Cariou, e i lavori crudi e provocatori di Prince). E in questo senso (pur specificando i giudici che la nuova originalità va letta in modo oggettivo, a prescindere dalle intenzioni espresse dell’artista, guardando solo a ciò che appare a “the reasonable observer”) la lettura della testimonianza di Prince in primo grado viene completamente ribaltata. Il suo utilizzare le opere di Cariou (e quelle di altri autori) come raw materials, la sua indifferenza (Duchamp parlava di “total anesthesia”) rispetto al senso estetico originario del materiale appropriato, sono esattamente l’espressione di un significato estetico radicalmente nuovo, ormai del tutto indipendente da quello dell’opera appropriata. Il legame con il copyright dell’opera di Cariou è dunque definitivamente reciso. E la sentenza di primo grado, almeno con riferimento a 25 delle 30 opere di cui si discute, è totalmente smentita in favore di Richard Prince.
La legittimazione dell’appropriazionismo come modalità espressiva autonoma e svincolata dalla parody defence, espressa in quest’ultima sentenza americana, sembra essere condivisa anche dai nostri giudici. Una recente decisione del Tribunale di Milano a proposito dell’uso da parte di John Baldessari di una forma scultorea con riferimento evidente alle inconfondibili silhouette di Alberto Giacometti, ripetuta più volte, ingigantita e abbigliata con tessuti multicolori e accessori chiassosi, ci dice che se l’opera appropriante ha veramente un’ autonoma e forte creatività perché trasmette un messaggio nuovo e del tutto proprio, l’uso di un’ opera altrui non è illecito. La traslazione da parte di Baldessari della sofferente donna post-bellica di Giacometti nella donna fashion victim contemporanea, l’alternanza di registro alto e basso, il gigantismo e la ripetizione pop che si oppongono all’essenzialità esistenzialista, sono differenze rilevanti e palesi che dimostrano senz’altro che le due opere esprimono una diversa visone del mondo e dell’arte. Sebbene assuma come punto di riferimento concettuale un precedente dello stesso Tribunale di qualche anno prima in tema di parodia letteraria (dunque di un’ ipotesi di tipica antitesi ideologica fra le opere), la decisione sul caso Baldessari sembra si svincoli progressivamente dalle griglie della parody defence, come ora fatto dai giudici americani: il nuovo significato estetico e ideologico dell’opera successiva sarebbe di per sée (a prescindere da intenti parodistici, di critica o commento) una ragione sufficiente per accedere alla piena libertà di espressione – anche tramite appropriazione – da parte dell’opera successiva.
Francesco Graziadei
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