Serie #3. Il conformismo dell’arte contemporanea
L'arte tende a un quid senza farne mai piena rivelazione, l'ineffabilità - per difetto o per eccedenza - è la sua stessa natura. Così le opere si mostrano entro una dimensione che non appartiene del tutto né al reale né al linguaggio: incompiute in quanto oggetto, neppure si esauriscono nel detto. Si tratta di un limite?
La condizione sospesa è quanto rende pienamente avverabile l’esperienza estetica, poiché solo così trova ambito ogni tipo d’interpretazione. Invece valori d’uso, politico, sociale, economico, comunicativo ecc. sono surplus che, incaricando l’espressione artistica di una puntualità estranea, ne possono distorcere apparenza e percezione; se il loro ricorso si diffonde fino a farsi metodo comune, la tensione in atto diviene messa in scena di una castrazione. In alcun modo si comprendono i motivi che relegano agli angoli dell’ovvietà l’arte, forza eletta a resistere al dominio del senso, o che conducono l’artista ad abbandonare il carattere individuale, seguendo una formula che nella sostanza è contrattuale, affinché dalle proprie realizzazioni gli altri possano dedurre dei rassicuranti elementi di riconoscibilità.
Senza insistere ancora sugli aspetti teorici, basta uno sguardo di massima all’attualità delle opere per verificare come una rilevantissima parte di esse, ormai non-fuori dall’ordine del mondo e del discorso in favore di un adeguamento al gusto che all’estremo può assumere anche le parvenze dell’innovazione e della protesta – proprio perché in arte si è detto e fatto tutto, difficilmente si rischia –, si riveli conformista. Situazione paradossale se fin quasi al termine dell’Ottocento contava l’emersione del segno originale da un sistema formale (mimesi della natura) e tematico (religione, storia, mitologia) sempre identico, e se un secolo dopo ha iniziato a contare l’emersione del segno identico da un sistema in potenza originale. In altri termini, ora più dell’espressione in sé vale la collocazione della stessa rispetto a un contesto d’appartenenza. Le maniere attraverso cui tale conformismo – da intendersi letteralmente come similarità delle forme – si genera e si diffonde sono ben individuabili; consideriamone, in estrema sintesi, qualche esempio da un repertorio assai più vasto.
Citazionismo di comodo
Il recupero di idee e soluzioni da un passato glorioso – soprattutto dai decenni Sessanta e Settanta: minimalismo, concettuale, azioni, arte povera in Italia e così via – come citazione, più o meno visibile, con funzione ingannevole: nell’istante in cui scopre il riferimento, l’osservatore compiaciuto della propria preparazione culturale confonde l’effetto benefico ma vacuo sulla propria autostima per godimento generato dalla visione. Il piacere non deriva dall’opera ma dalla contemplazione dell’Io.
Ricatto sociale
Le opere che si identificano con un messaggio sociale – la difesa di un valore piuttosto che la denuncia di una condizione – dimostrano sempre un ritardo abissale rispetto alla società stessa, poiché ciò a cui si riferiscono o è già avvenuto o è già ampiamente noto. Tale banalità, anche se le si riconoscesse il deterrente dell’ingenuità, non è però neutrale. Essa costituisce lo strumento di un ricatto: la plateale giustizia di quanto si dichiara conferisce ai lavori un’aurea morale che il giudizio estetico rinuncia a contraddire. Oltre che subdola la pratica, se confrontata alla forza di ripetizione e di incisività dei media d’informazione, dimostra il limite dell’inefficienza.
Pedagogia sforzata
Riguarda coloro che con ampio repertorio ci insegnano perennemente a ri-considerare: osservare la realtà con nuovo spirito, disegnare diversamente le carte geopolitiche del pianeta, instaurare migliori relazioni, vedere l’arte ovunque. Tutte lezioni che purtroppo non valgono granché, sia perché la controtendenza non è qualcosa che nel sistema democratico mini fattivamente la norma, sia perché gli uomini imparano dall’azione quotidiana prima che da quella esemplare. In fin dei conti non si tratta di un ausilio agli altri, ma di un sostegno all’orgoglio dell’artista nel ruolo d’insegnante.
Di elevazione in elevazione
A fronte di pochi che provano sulla loro pelle l’estremo positivo e negativo dell’azione, vi è una quantità che a forza di intenzioni mira a sollevare il pubblico dalle costrizioni terrene. Riscoperta dei significati profondi, introduzione di pratiche da un oriente mitico, discipline di consapevolezza… sebbene raramente l’artista realizzi nel suo quotidiano quell’obiettivo che vorrebbe far raggiungere agli altri – senza d’altra parte assumersi il coraggio del fallimento – e che di frequente i riferimenti proposti siano per lui stesso poco più di un vezzo, tale modalità si dimostra un magnifico escamotage per porre l’opera in un contesto talmente alto da risultare irraggiungibile dalla valutazione critica.
Tattica del colpo di scena
La grande installazione, per dimensione o per effetto suscitato. Modo abbastanza recente e per un periodo apprezzabile, poiché ironicamente sfacciato e in linea alla nostra sensibilità nel prediligere il “di più”, da tempo sviluppa i segni del declino: proprio il sistema industriale consumistico che esso estremizzava sta vincendo in termini di azzardo e di inventiva. Dall’originalità si passa al déjà-vu.
Pur non esaustiva, questa collezione segnala come negli ultimi decenni, probabilmente senza che ne percepissimo la reale portata, si è consumato un passaggio epocale. I primi ad avvertirne l’incombenza – con il loro interesse per elementi particolari di una realtà deflagrata, di cui l’arte non rappresentava più una vera avanguardia, anzi l’arte già risiedeva nelle modalità stesse del loro discorso – furono alcuni “esteti del pensiero” quali per esempio Foucault, Deleuze, Lacan, Derrida, Klossowski, Bataille, Pasolini. Le loro riflessioni erano preannuncio che l’ineffabile sarebbe stato cercato e trovato altrove; ora possiamo affermare che il ruolo rivoluzionario dell’arte, il quid dell’essere dentro le cose pur non essendoci, appartiene definitivamente ad altri ambiti: agli scenari pressoché inimmaginabili della fisica quantistica (universo in espansione e contrazione, materia ultima come vibrazione, indeterminazione di ogni fenomeno), ai sistemi relazionali del web (modalità incontrollabile della connessione e del link, susseguirsi in una ristretta fase di talenti unici e precoci come Zuckerberg, la coppia Brin e Page, Mullenweg, Karp tra gli altri) e dalla parte opposta – parte che il sistema classico di pensiero definirebbe “negativa” – all’esasperazione consumistica (riduzione di tutto ai termini economici, evoluzione della pubblicità come fattore naturale), agli estremi patologici della convivenza (saturazione delle informazioni, edonismo politico, gusto della strage).
Queste e ulteriori componenti semplicemente accadendo si danno come pelle della realtà. L’arte, chiusa tutta nell’auto-referenzialità, invece di accadere si è fermata a commentare scenari che non esistono più. Mi sembra evidente che l’unica via d’uscita sia quella di scendere dal piedistallo – il piedistallo più alto che vi sia mai stato – e smettere con le maniere previste, innocue e conniventi: l’apologetica varia della democrazia, della solidarietà, della giustizia, della bontà, del dovere, del pittoresco ecc. Se queste componenti dobbiamo riferirle così tanto, significa che non le sentiamo, dunque che ancora non ci appartengono davvero (e niente può garantire che ci apparterranno tutte). Attendiamo non un’arte della rassicurazione, ma della crisi – che sappia estremizzare, in forma di anticipazione e forse di antidoto, il frammentario, l’incomprensibile, il costrittivo, la vertigine, l’invivibile di adesso.
Matteo Innocenti
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