Prima i fatti. Lunedì 3 giugno, durante l’edizione serale del TG1, un servizio parla della “guerra” tra la città di Milano e gli imbrattatori di muri e saracinesche di esercizi commerciali, ponendo l’attenzione sulla scelta dei commercianti di far decorare il proprio spazio da nomi noti della Street Art. Tutto ciò perché, secondo la cronista, un writer, che deve sottostare a un rigido codice etico, non “scarabocchia” il lavoro di un altro, soprattutto se anziano, quindi degno di rispetto. Si fa riferimento addirittura ai costi che avrebbe questo tipo di intervento, e il finale amaro sostiene che ogni artista di oggi è stato un writer che imbrattava i muri.
Martedì 4 giugno su La Repubblica di Roma a pagina VII esce un articolo sui murales che sono stati dipinti sull’ex caserma di via del Porto Fluviale a Ostiense. Quel murale, si scoprirà solo in seguito, è uno degli ultimi lavori di Blu. Lo si scopre in seguito su Internet, soprattutto su Twitter: appena pubblicato l’articolo, parte una campagna contro la testata e la giornalista, a detta di molti non in grado di fare il suo mestiere. Non solo per non aver riconosciuto “uno degli street artist più noti al mondo”, ma anche per averlo chiamato “imbianchino”. Come reagisce la testata? Corregge diverse volte l’articolo nella versione digitale fino a dichiarare che il murale porta la firma di Blu e che sarebbe stato lui a definirsi imbianchino su esplicita richiesta.
Cosa ci dicono questi due casi? Prima di tutto che non esiste una linea giornalistica nel nostro Paese che sia in grado di raccontare fatti del genere in modo serio e informato. A partire dal linguaggio, che accosta molto spesso termini militareschi (battaglia, guerra ecc.) nella descrizione del rapporto tra queste forme espressive e le istituzioni. Se è vero che, negli anni, proprio le istituzioni hanno dimostrato di avere un atteggiamento ambiguo e schizofrenico, appropriandosi dell’influenza della Street Art su target giovanili o mettendo in atto azioni combinate di promozione e repressione, è altrettanto vero che il panorama mediatico non ha fatto di meglio. Rimanendo nelle questioni terminologiche, continuando a utilizzare in modo intercambiabile termini quali “graffitaro”, “writer”, “street artist”, “imbrattatore” e da ultimo “imbianchino” si viene meno alla funzione informativa del giornalismo, che dovrebbe usare certe categorie con cognizione di causa. Se non esiste un’approfondita conoscenza del fenomeno Street Art o del Writing, questo è in parte dovuto agli errori grossolani e alle tremende cantonate prese dai cronisti: non so quante volte è capitato di leggere del fermo di un sedicente “writer” che avrebbe scritto frasi d’amore o tesi politiche.
Lasciamo stare il fatto che ci sono Paesi in cui le testate stilano classifiche delle migliori opere di Street Art nel mondo o altri in cui si offrono focus su alcuni nomi di punta del panorama internazionale: non ci si aspetta tanto, ma almeno di conoscere un fenomeno che non può più essere trattato come una nicchia.
L’Italia, fra l’altro, è anche uno dei Paesi con la più alta densità di festival, progetti, convention dedicate alla Street Art e non si parla neanche di un fenomeno recente: gli eventi più longevi hanno ormai dieci anni. Si parla spesso della mancanza o della totale assenza di informazione storico-artistica nel nostro Paese, e il trattamento subito negli anni dalla Street Art ne è l’ennesima controprova.
Claudio Musso
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