The Man Who Shot the 70s. Intervista con Mick Rock
Lo chiamano “The Man Who Shots the 70s” perché è stato l'unico che negli Anni Settanta ha immortalato “on and behind the stage” David Bowie, Lou Reed, Iggy Pop e i Queen in quelle pose grandiose che hanno fatto la storia della musica rock. Pose che, fino al 16 giugno, saranno visibili allo Spazio Gerra di Reggio Emilia per “Rock'star”, con una selezione curata da Stefania Carretti, che presenta le star di Mick Rock e il suo percorso in ascesa per il successo.
Prendete le vostre domande e buttatele nel cestino perché, se intervistate Mick Rock (Londra, 1948), non c’è copione che tenga. Dalla storia di come ha iniziato al dietro le quinte degli shoot fotografici, dalle sue impressioni sulle icone del rock alle scoperte casuali che l’hanno portato al successo: Mick racconta proprio di tutto. Senza freni e limiti, pur tenendo sempre a mente che la fotografia – quella che l’ha portato al successo – l’ha scoperta davvero per caso.
Tutti ti conoscono per essere il fotografo che ha immortalato gli Anni Settanta. Ma chi era Mick Rock prima? Come sei arrivato alla tua passione per la fotografia?
Ero un semplice studente della Cambridge University di Londra e, a dirla tutta, la passione per la fotografia non ce l’avevo. Quello che mi interessava erano le lingue, la letteratura. Amavo i poeti: Baudelaire, Poe, Byron, Coleridge… La mia educazione era letteraria, non visiva. Poi, per caso, mi ritrovai con una macchina fotografica in mano. Colpa di un acid trip.
Hai trovato per caso una macchina fotografica e hai cominciato a usarla?
Quasi. Ero nella camera di un amico, io non avevo molti soldi e i miei non mi avevano mai preso una macchina fotografica, ma lui stava molto bene economicamente, aveva un paio di macchine foto ma non le usava spesso, aveva un impianto hi-fi bellissimo e tante altre cose ed era una persona molto simpatica e alla mano. Mi trovai per qualche ragione nella sua stanza in compagnia di giovani ragazze e sul letto c’erano queste macchine fotografiche e in mezzo a un trip di acido – io ero molto curioso – mi sono messo a ruotare in mano questa cosa e facevo scattare l’otturatore, sentivo il rumore che mi piaceva molto, schiacciavo ancora e ancora, naturalmente non c’era la pellicola, così il mio amico caricò un rullino. È allora che la fotografia è entrata nella mia vita e ho cominciato a scattare. Non era pianificato, non volevo fare il fotografo, ma è iniziato tutto così.
Quindi ti sei appassionato? Hai studiato fotografia e la tecnica fotografica?
Tecnica? Macché tecnica! Non mi è mai interessata. Non sapevo come fare le foto e allora inquadravo, mettevo a fuoco e quando vedevo qualcosa che mi interessava scattavo. Non avevo un talento artistico/visuale visto che ero cresciuto in un ambiente letterario e musicale, scattavo quando lo sentivo. Mi piaceva scattare volti, quelli che trasmettevano qualcosa, mi sentivo bene con una macchina in mano. Qualcuno poi mi diede 5 pound per fare foto a una band locale ma non ricordo come si chiamava.
Ma ti eri offerto? Avevi messo un annuncio di lavoro?
No no, qualcuno aveva sentito che avevo cominciato a fare delle foto, così, quando si è presentata l’occasione in cui qualcuno aveva bisogno, è venuto fuori un “chiedi a Mick!”. E io avrei fatto qualsiasi cosa per cinque pound!
Cominciarono ad arrivare poi altre offerte?
Quando sei al college e studi arte non è come quando vuoi diventare medico, avvocato o scienziato. È tutto più rilassato, non celebrale. Vedi gente che continua studiare e non viene pagata e io non ero un tipo perfettamente accademico, mi distraevo facilmente…
Certo che anche il tuo cognome…
Esatto. Non è un Michael Smith qualunque. Il mio cognome è un segno del destino.
Come sei diventato il fotografo ufficiale di David Bowie?
È molto più semplice di quello che la gente pensa. Non c’erano tanti fotografi in giro e sembrava che nessuno lo volesse diventare, io invece avevo bisogno di soldi. David era all’inizio ma gli spettatori ai live crescevano di volta in volta. Io facevo qualche scatto, poi lui guardando le foto mi fece sapere – tramite il suo manager – che secondo lui riuscivo a vederlo nel modo in cui lui si vedeva. Un giorno un suo brano entrò nella top ten e la gente cominciò a interessarsi veramente a questo strano ragazzo. I primi scatti glieli feci due giorni dopo l’uscita di Ziggy Stardust, a un concerto. Di questi ce n’è uno che è diventato subito famoso: lo feci a lato del palco durante gli encore di quello show. Da quel momento le cose cambiarono. Nello stesso periodo Lou Reed e Iggy Pop erano in tour a Londra. Era l’estate del 1972, Ziggy Stardust era uscito e io mi sono trovato con questi tre maestri della provocazione. Avevano tutti un’immagine straordinaria, erano tutti uomini brillanti e intelligenti che sul palco sapevano sorprendere come nessun altro. Feci degli scatti al “terribile trio” a un party, quattro scatti in particolare, fatti nel mese di luglio, quelli che poi sarebbero stati chiamati “la sacra trinità”. Era evidente che erano diventati icone.
A quel punto stavano diventando più di semplici musicisti.
Sì, stavano diventando vere icone. Io però più che musicisti, forse a causa della mia formazione letteraria, li vedevo come poeti liberi, che producevano della grande arte e che, con l’aiuto della droga, producevano arte ancora migliore!
Poeti dell’era moderna, quindi?
Quello era il mio modo di vederli. Iggy era più complesso di quello che la gente vedeva e Lou, come me, era andato all’università a New York ma ha poi preso un’altra strada, quella che sentiva. E anche io che ho cominciato a fare foto per qualche soldo nonostante non volessi diventare un fotografo, ero sempre più affascinato da questi personaggi. Se parliamo di poeti… ricordo ancora Syd Barrett che incontrai a un party di Natale prima che i Pink Floyd diventassero famosi. Condivisi anche un appartamento con lui, era molto gentile e con i piedi per terra. Si ascoltava musica, si fumava uno spinello e si rideva. Poi è successo qualcosa e certe situazioni, certe cose, con lui non si potevano più fare. Si era chiuso e non voleva fare show suonando hit, era più come Charlie Parker. Aveva tutto dell’immagine della rock’n’roll star, ma non voleva esserlo.
A quel punto però potevi definirti un fotografo a tutti gli effetti.
Oggi i fotografi sono rispettati ma negli Anni Settanta fare il fotografo rock era una cosa nuova. Anche i miei genitori mi chiedevano: “Michael, ma che cavolo fai tu? Per cosa sei andato a scuola?”. Mi svegliavo a mezzogiorno, andavo a sviluppare le foto, poi uscivo alla sera… grande!
Con questa vita ti sentivi una rockstar?
In quel periodo giravano storie che io vivevo con loro, che distruggevo tutto, che mandavo tutti a quel paese… no, non sono fatto per queste cose. Assomigliavo a loro ma non ero certo come loro. Non ero un intruso, non ero un fotografo che si imponeva ed era invadente, mi limitavo a documentare. Era così, piaccia o no. Ho poi fatto i miei primi scatti in studio perché fino ad allora erano solo state prese foto da live show. La prima sessione fu con David, ne uscì uno scatto diventato subito famoso, ovvero quella di Dave col sax.
Com’è il lavoro in studio?
C’era solo un ragazzo che mi ha mostrato un paio di cose. Mi disse: “Mick, non è complicato. Muovi una luce o due intorno, avanza o indietreggia, vedi se ti piace e… ed è tutto qui”. Io pensai: “Per quale motivo dovrei studiare fotografia? Fanculo! Chi vuole farlo?!”. La fotografia per me non è solo qualcosa di visivo, è proprio qualcosa di organico. Il momento giusto per scattare lo sento dentro. Se non sono immerso nella fotografia, non funziona. Come è successo poi coi Queen per la cover di Queen II.
Non è stata programmata?
Stavo prendendo una tazza di caffè quando sono stato chiamato per andare in studio con i Queen. C’era una foto di Marlene Dietrich che avevo visto, l’ho mostrata a Freddy e gli è piaciuta, poi abbiamo cominciato a fare scatti sia a colori che in bianco e nero e sono uscite cose interessanti.
Cosa ne pensi di altri fotografi rock diventati famosi?
Va benissimo seguire qualcuno che ti ha preceduto. Io però non ho seguito nessuno, non volevo fare il fotografo e non c’erano fotografi rock all’epoca. È strano per me, mi piace proprio fare foto, lo sento dentro l’atto della foto. Non ho molte macchine fotografiche anche perché quando vedo tutti quei fotografi pieni di borse, obiettivi e camere penso: “Ma che te ne fai? Si scatta una foto alla volta!”. Io credo nella reincarnazione: forse in passato ero un ritrattista francese o italiano e, chissà, magari dopo di me nascerà qualcun altro con un indole visuale, che crede nell’improvvisazione.
Rockstar a parte, hai fatto altri progetti e hai esplorato altre strade?
È stato un processo naturale, non una scelta intellettuale. Ero semplicemente curioso. Come quella volta che scattai le foto per Ziggy Stardust. Quelle foto non sono state studiate, non sono state fatte pose in studio, e tutte sono state scattate prima che ci fosse un certo controllo sull’argomento e il prodotto. David era un genio, un vero istintivo. A un certo punto poteva uscirsene dicendo “ehi Mick, ho un disco nuovo pronto”, ma non lo aveva detto a nessuno prima. Lo stesso discorso vale per le sue performance visive. Diceva: “Io faccio il mio, la gente decide poi se piace o no, ma io vado per la mia strada”. La nostra reazione spesso era: “Ma che cavolo è?”. Perché nessuno sapeva mai niente prima. Ritornando a noi, ho fatto tanti altri progetti che mi hanno dato grandi soddisfazioni e li ho sempre fatti per me, perché sentivo che era il momento. Sempre per la mia voglia di esplorare. Solo che… tutti chiedono sempre di David, Lou e Iggy. E va benissimo, perché adoro quel periodo e questi ragazzi. Ma ho fatto tante altre cose che mi hanno fatto sentire molto bene.
Hai sentito il nuovo album di Bowie?
È grandioso, un genio, un artista vero. Riesce sempre a rinnovarsi rimanendo se stesso. Ha fatto la sua strada senza seguire nessun altro. Suonare è quello per cui loro vivono, quello che li fa star bene, e il loro è un grande insegnamento. Ci dicono: “Fregatevene dei giudizi, percorrete la vostra strada”. E io l’ho fatto. La mia non è stata una carriera da fotografo, è stata un’avventura straordinaria. Ho seguito l’istinto senza pensare ad altri fotografi, senza voler fare carriera o qualcosa in particolare. Ho seguito la mia visione di fotografo per caso.
Silvia Parmeggiani
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