Una mostra millimetrica. La Biennale secondo Teresa Macrì
Mi rimane difficile credere che qualcuno ancora frequenti e partecipi (con tutto il masochismo fisico che ciò comporta) al rutilante bailamme della Biennale veneziana (che più fortemente incarna lo spirito auto-celebrativo e competitivo del nostro tempo) per una incontenibile frenesia esplorativa di ciò che cambia e si tramuta nel frenetico mondo dell’arte. E allora l’edizione di quest’anno…
Dato che il format ultra-centenario della Biennale di Venezia detiene (e difende) una valenza che si riscontra nel suo perpetuarsi e tramandarsi (in quella che Foucault lucidamente definisce come archeologia del sapere) sale l’aspettativa di possibili disgiunzioni e rotture, crolli e sganciamenti che possano fratturare la linearità quasi narcolettica con cui le varie edizioni si articolano su se stesse.
Non ho motivo alcuno per non ravvisare in Palazzo Enciclopedico una cura, uno studio e un concept mai esperito precedentemente, che vista la sommarietà intellettiva e la banalità installativa della maggior parte delle edizioni passate non sembrerebbe un grande apprezzamento. Soprattutto non mi appare come un’impresa iperbolica se è congegnata da Massimiliano Gioni, che è il migliore curatore italiano sulla piazza, come modestamente penso. Da cui e per quel che vale, chapeau! Non mi interessa neppure disquisire sulle inclusioni/esclusioni artistiche, che (lo so, è terribile ma curatorialmente spesso è così…) diventano elementi spesso formali, nell’enunciazione di un concept. L’importanza è che vi sia un pensiero che vibri e che componga un lessema, qualsiasi esso sia. Di Palazzo Enciclopedico, ahimé visto e percepito volatilmente data la sua massiva estensione, mi restano i flash del miglior Dieter Roth e (purtroppo) del peggior Tino Sehgal, di Danh Vo e di Jim Shaw e l’ancor assoluto spaesamento prodotto da Duane Hanson. E anche i frammenti fortunatamente non organizzati di una ricognizione insolita di invisibili, che probabilmente assurgono a un territorio magico-surrealista che compone, nella sua dissonanza, l’idea enciclopedica.
Ma ciò che per me si fa più avvincente è la riflessione sull’assoluta simmetria e sulla perfetta assonanza che la Biennale veneziana riflette della realtà in cui viene reificata. La sua millimetrata “costruzione” di un paradigma politico-culturale che volutamente scavalca ciò che costituisce il reale con i suoi conflitti e contraddizioni e si rinchiude in una sorta di arca estetizzata come l’Arsenale, per circoscriversi e auto-legittimarsi in un limbo astrale di fiction. I cui attori egemonici non sono più gli artisti (che costituiscono oramai solo la diegesi della fiction) ma quel parterre di laboriosi tycon, oligarchi russi, politici presenzialisti, brand affermati del made in Italy, Grandi Gasby, rifiorite principesse e solerti imprenditori che “distraggono” col loro codificato glamour la centralità artistica. Tale è il riflesso del tempo ostentativo e illusorio che regola e controlla il palinsesto spettacolare di qualsivoglia kermesse contemporanea, Documenta o Biennale.
Ed è proprio questa congiuntura che Jeremy Deller (Padiglione britannico), in una operazione di escapismo storico-sociale, contrasta forse solitariamente e antiteticamente nel trend generalista. Lungi dall’essere una critica formal-specialistica, a cui ci si sottrae volentieri rispettando per assunto il fare curatoriale di chicchessia, è piuttosto una vaga riflessione sul tempo dell’arte, compresso inesorabilmente tra l’aspirazione del futuro e l’osservazione quasi sacrale del passato tanto da sospendere il presente in uno stato di anemia. Allo stesso tempo, il re-enactment di una mostra epocale come When Attitude Become Form, sia pure compressa nelle sale di Ca’ Corner, rianima quel concetto di tempo e spazio contraddittorio che l’opera d’arte può detenere nella sua stessa essenza. Ma ciò non può che coniugarsi con la figura oramai leggendaria di curatore animateur/amateur che l’auratico Harald Szeemann ha incarnato nel suo tempo anarchico e che, ora sulle rive lagunari presidiate da fantasmatici yatch, rischia di divenire perfino anacronistico.
Teresa Macrì
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