Architettura nuda #3. Franco Purini
In questa puntanta del ciclo “Architettura nuda” ospitiamo Franco Purini, che interpreta la nudità come argomentata essenzialità, in definitiva come stigmate del moderno. Una essenzialità concettuale che da sempre Purini ricerca attraverso il disegno di architettura.
Ciò che è spoglio, essenziale, scarno, ridotto al suo principio primo è sempre stato considerato l’emblema rappresentativo del vero. Per questo motivo la nudità è il simbolo più diretto e duraturo della verità. Come nella famosa statua di Gian Lorenzo Bernini alla Galleria Borghese, chiamata proprio La Verità o, se si preferisce, nel famoso quadro di Gustave Courbet L’origine del mondo, l’abolizione di ogni velo pone chi guarda davanti all’apparizione di qualcosa della cui esistenza fenomenologica e fisica non si prenderebbe atto se non fosse priva di qualsiasi oggettivazione. Questo disvelamento è però più legato al timore che al desiderio. Assieme alla sorpresa, la nudità suscita infatti un silenzio allarmato. La nudità non si limita però a mostrare il vero. Nel momento stesso in cui qualcosa – un paesaggio, un edificio, un volto – fa sì che si manifesti nella sua identità assoluta, la nudità si fa riconoscere anche come una maschera, che mentre rivela nasconde. Marcel Duchamp usa i corpi dei célibataires come ostacoli alla visione del corpo messo a nudo della mariée, così come le precedenti Demoiselles d’Avignon di Pablo Picasso sembrano indossare quelle maschere africane in quegli anni appena scoperte. Diana fa sbranare Atteone, trasformato in cervo, dagli stessi cani del giovane cacciatore, ma non tanto perché egli ha potuto vedere il corpo della dea nella sua nudità, ma perché si è fermato a quella senza decifrarne il mistero e comprenderne la sacralità. Per questo la verità è solo parzialmente resa evidente dalla nudità.
Le molte tendenze che si possono individuare nell’architettura moderna hanno interpretato tutte, sebbene in modo diverso, la dimensione di una sempre maggiore semplicità, negando l’ornamento come Adolf Loos; ricorrendo al purismo delle forme come Le Corbusier, identificando nel meno il più come Ludwig Mies Van der Rohe; limitandosi agli elementi fondamentali del costruire come Gerrit Rietveld, elementi organizzati secondo una sorta di ancestrale analisi logica, sovrapponendo direttamente l’edificio al puro senso del naturale come Frank Lloyd Wright; esprimendo la radice grammaticale e sintattica dell’abitare come Saverio Muratori; Aldo Rossi scopre nell’illusione della scenografia – “la scena fissa della vita”- la consistenza effettiva dell’architettura; Peter Eisenman gioca sulla misura e sulla sua infrazione in un ansioso confronto con una classicità che lo affascina e lo inquieta; Vittorio Gregotti coglie nell’equivalenza tra interno ed esterno le ragioni di una radicale abrasione di ogni sfasamento dimensionale come prezioso ambito semantico. Per inciso anche gli schemi magistrali di Rudolf Wittkower non sono altro che una nudificazione dell’architettura, come in fondo lo spianare le Twin Towers ha esposto agli occhi del mondo il corpo nudo del suolo su cui sorge la metropoli più conosciuta del mondo. Tuttavia rifarsi alla nudità del significato che le cose contengono, e che ogni tanto rendono esplicito, non è automaticamente la premessa di una ritrovata libertà di visione. L’eccesso di realtà è anche impositivo, in quanto obbliga a una totalità, non sempre voluta, nel rapporto con il mondo e con le sue diverse componenti.
Con il suo libro Nuda architettura Valerio Paolo Mosco ha voluto riaffermare con attenta partecipazione e con un notevole spirito critico la grande tradizione del sottrarre come esercizio estremo. Una pratica, più spirituale che tecnica e poetica, la quale è il luogo di un eroico nichilismo della forma. Ricorrendo a una serie di tipologie di nudità architettonica egli ha tracciato un itinerario chiaro e convincente delle nuove manifestazioni di questa che potrebbe essere ritenuta l’invariante per eccellenza dell’architettura moderna e contemporanea. Tale invariante apre tre prospettive. Essa rende infatti visibile la realtà delle cose; dichiara la rilevanza umana dell’anonimato; rimuove ogni plusvalore comunicativo. Un plusvalore divenuto oggi quasi sempre invasivo oltre che, il più delle volte, inutile. Ma c’è un problema. L’architettura non può essere nuda fino in fondo. Luigi Moretti ha scritto che se un muro rimane un muro non è architettura. Per esserlo deve essere segnato da una incisione, da una modanatura, da un qualche ritmo che estragga la superficie del muro stessa dalla sua indifferenza cosale, che la connoterebbe solo come una mera estensione. È proprio questa dialettica tra la piena nudità e la nudità relativa che apre un varco sottile, una fenditura quasi impercettibile – un taglio fontaniano – che consente all’architettura di esistere.
Franco Purini
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