Il fenomeno Gangnam Style è stato cliccato da milioni di persone. Ma qui si inserisce una variante linguistica. Ai Weiwei utilizza Gangnam Style per far conoscere le proprie condizioni di sorvegliato politico. C’è molta gioia e libertà nel video di Ai Weiwei che, vestito con colori violenti, balla con energia l’elementare passo di danza, circondato da giovani artisti e belle ragazze, molto simile a un video di MTV. Ma in una sequenza è ammanettato.
La struttura dei video di Do the Harlem Shake è sempre uguale: un personaggio inizia a ballare, o piuttosto a dare segni di “diversità” rispetto al contesto o al gruppo in cui si colloca. I video sono ripresi in modo amatoriale e in ambienti casuali. Di colpo e con un taglio netto di montaggio, il danzatore solitario è in mezzo alle persone prima distaccate e occupate in attività quotidiane, che ora si agitano vestiti o svestiti nei modi più incongrui. Numerose le maschere, elementari e quasi parodistici i movimenti, l’atmosfera giocosa e infantile sembra negare il grido terroristico della techno.
Ma il carattere “virale” del video lo porta nel mondo e appaiono Do the Harlem Shake girati in Egitto, appaiono le maschere portate durante Occupy Wall Street, in un liceo tunisino il carattere giocoso prende coloriture polemiche, ragazze in pantaloni e maglietta ballano con i lunghi capelli sciolti e senza velo in una piazza. In un video di una certa qualità formale, un plotone di soldati è sull’attenti, ma il comportamento da tarantolato di uno di loro contagia presto tutti.
Era questa l’intenzione iniziale? Rappresentare un individuo che si ribella all’ordine e sparge il contagio? L’uso di “correnti” nello spazio web per convogliare contenuti alti, culturali e politici è una tradizione della Net Art. In questo momento la diffusione di YouTube è capace di veicolare contenitori di messaggi che hanno il vantaggio di sembrare innocui ma si rivelano complessi. Stiamo per assistere alla nascita di nuove forme di contestazione “soft”?
Lorenzo Taiuti
critico di arte e media
docente di architettura – università la sapienza di roma
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #13/14
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