Dove sta andando l’India?
Contro ogni aspettativa, l’India non è la nuova Cina. Neanche lontanamente. Forti tradizioni radicate, assenza di confine pubblico-privato, rifiuto per le grandi visioni urbanistiche e una salda democrazia sono gli ingredienti base per capire la strada che, a fatica e non senza detrattori, sta intraprendendo una delle future potenze mondiali.
Per capire cosa succede in India in questi anni di boom demografico – è il secondo Paese più popolato al mondo dopo la Cina e si stima la supererà nel prossimo ventennio – e di rapida ascesa nell’economia mondiale, il modo migliore è farsi guidare da chi, da oltre vent’anni, lavora in uno dei settori nodali dello sviluppo indiano. Rahul Mehrotra – reduce da una mostra all’Accademia Britannica di Roma – è architetto e urbanista, il cui studio RMA Architects, fondato nel 1990, è di base a Mumbai. È docente presso la Graduate School of Design della Harvard University e direttore del Dipartimento di Pianificazione e Progettazione urbana, nonché membro del comitato direttivo, della Harvard’s South Asia Initiative. È suo il volume Architecture in India since 1990 edito dalla tedesca Hatje Cantz. E saranno suoi gli occhi attraverso i quali intraprendiamo, sotto una luce nuova, un viaggio da insider nella cultura architettonica indiana.
La prima tappa, punto di partenza di ogni viaggio che si rispetti, passa per la società indiana. Un groviglio inestricabile, se non si hanno gli strumenti adatti. Città formale e informale sono un tutt’uno, difficile distinguerle nettamente. È qui che il ceto medio e quello povero si mescolano, mentre il ceto alto a pochi metri di distanza, si distacca nettamente aumentando un divario sempre più incolmabile. Una società basata su una crescita velocissima (la città di Mumbai è passata da poco più di 10 milioni di abitanti nei primi Anni Zero agli oltre 20 milioni del 2012) e su una democrazia consolidata. Ma anche su una concezione dello spazio pubblico come naturale estensione di quello privato. È normale, ad esempio, che durante il Ganesh Festival per 10 giorni una strada pubblica venga completamente occupata e trasformata, diventando il teatro delle celebrazioni religiose collettive. Come è normale che il 92% della popolazione crei da solo e in modo informale il proprio lavoro, occupando porzioni di città con strutture temporanee spesso fatiscenti. Realizzate nella totale assenza sia delle istituzioni che dei progettisti. Una netta minoranza, questa, circa uno ogni 500mila abitanti (in Italia sono più di due ogni 1.000).
Ma è la nazione stessa a essere spaccata in due. Da un lato, forti pressioni capitalistiche premono per plasmare l’India sul modello cinese – uno sviluppo incontrollato di megalopoli uguali tra loro e New Town -, dall’altro le profonde radici democratiche e pluraliste suggeriscono di rallentare, riportando le persone e i loro problemi quotidiani al centro del dibattito. Ciò produce almeno due categorie di architetture: una che lavora su macroscala, con macrointerventi da migliaia di insediamenti; l’altra che si insinua nel tessuto, innestando piccoli e mirati progetti di qualità. Con l’inevitabile confusione di stili, linguaggi e approcci che ne deriva. E con la difficoltà di riuscire a distinguere gli edifici storici da quelli appena realizzati in un pastiche eclettico, caotico e indistinto.
In questo quadro complesso e problematico, quale potrà essere il ruolo dell’architettura contemporanea in India? Secondo Mehrotra non si tratta più di avere sulle città “Grand Vision” ma “Grand Adjustment”. Di insinuarsi nelle trame intricate della società, prendendone in prestito abitudini e tradizioni per usarle in maniera organizzata e strategica, col fine di ottenere un miglioramento tangibile. Una professione, quella dell’architetto oggi in India, in crisi profonda, segnata dall’assenza di una committenza a cui riferirsi, ostacolata dalla società capitalista e da un governo centrale spesso disinteressato, che finisce col risultare molto lontana dai problemi delle persone comuni e dal suo obiettivo di migliorare la condizione della popolazione più povera. Perché, se è vero che il lavoro non manca nel ricco settore formale, questo non rappresenta che un decimo del totale e di certo non può essere preso a esempio.
È grande la sfida per l’India di domani che, a proprie spese, dovrà trovare il proprio modello di sviluppo futuro. All’insegna di quel pluralismo dilagante che va tradotto in un’immagine coerente e sostenibile. Un’immagine senza eguali nel mondo.
Zaira Magliozzi
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #12
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