Esiste un’arte italiana?
Mai come in questo particolare momento storico sarebbe utile e quindi auspicabile riprendere il dibattito sul sistema dell’arte in Italia (anche se, a dirla tutta, la parola ‘sistema’ non è che mi convinca molto, in quanto sembra escludere qualsiasi realtà al di fuori dello stesso). Qualche riflessione sorge, come dire, spontanea. Quelle che seguono ce le consegna Paola Di Giammaria, responsabile della Fototeca dei Musei Vaticani.
Proprio in questo momento storico in cui, per quanto riguarda l’arte contemporanea, l’apporto curatoriale diventa sempre più preponderante e i confini nazionali si rivelano sempre più inconsistenti e in cui il linguaggio dell’arte è diventato omnicomprensivo e fagocitante, mi pare necessario meditare sul valore identitario dell’arte.
È vero che la forza espressiva dell’arte supera ogni barriera, ma allo stesso tempo appare opportuno in un mondo sempre più globalizzato riscoprire una sorta di cemento culturale che identifichi la storia e la tradizione del nostro Paese. Anche per questa ragione nasceva nel 1895 la Biennale di Venezia a ridosso dell’appena raggiunta unità nazionale: per essere riconoscibili, per avere i propri contorni ben delineati e chiari. Il retaggio ottocentesco dei Padiglioni nazionali, seppure può sembrare oggi anacronistico e fuori moda, è una vera e propria ricchezza, nonché una risorsa, in quanto i padiglioni stessi si sono rivelati in molti casi una fucina di sperimentazione che va al di là di nazionalismi e campanilismi acritici. Riscoprire l’identità non significa infatti a tutti costi storicizzare. A questo sono deputati i musei. Occorre invece trovare contesti e ritrovare un senso di appartenenza che non ci limita ma ci distingue. Occorre tornare a riflettere su ciò che l’Italia da sempre rappresenta per il mondo intero in fatto di cultura, di arte, di storia, di tradizione. Qualcosa di unico. Ciò significa non tornare indietro, ma guardare avanti e tuffarsi nel mondo globalizzato a occhi aperti e consapevoli.
D’altronde, la storia dell’arte di questi ultimi due secoli parla per noi. Il problema non è nuovo. La necessità di riaprire la discussione nell’arte sulla questione identitaria riappare con il Futurismo ma con esiti totalmente opposti, vista la vocazione prettamente internazionalista del gruppo che pubblica il proprio Manifesto a Parigi, seppure con un’impronta fortemente nazionalistica, soprattutto nei confronti dell’arte francese. Dello stesso argomento ne discutono due grandi ideologi nella prima metà del secolo: Margherita Sarfatti, convinta sostenitrice di un linguaggio artistico che non perdesse di vista la forma classica, e Lionello Venturi, per il quale l’arte non ha frontiere, è figlia del proprio tempo ma è cittadina del mondo, linea quest’ultima che prevarrà nel secondo dopoguerra, per ragioni ovviamente più ideologiche che artistiche. Negli Anni Sessanta si continua a discutere dell’idea nazionale ma in un contesto completamente cambiato, del tutto concettuale e alle soglie della contestazione, che sfocerà nel testo di Germano Celant, fondatore dell’Arte Povera nel 1967, Per un’identità italiana, pubblicato nel 1981 come prefazione del libro Arte nell’Italia. Proprio negli Anni Ottanta la Transvaguardia di Achille Bonito Oliva con il suo ritorno alla pittura sembra opporsi alla linea di Celant, per cui un’arte che voglia dirsi italiana non può essere solo decorazione ma deve rivendicare la propria funzione destabilizzante e denunciataria.
Cosa sia successo dopo dell’identità artistica italiana non è chiaro. Nessuna delle due linee ha vinto. Anzi, si può dire che l’atteggiamento nei confronti della questione è piuttosto oscillante tra una posizione negativa rispetto all’identità nazionale e al tempo stesso una latente aspirazione, carica di spunti politici ed etici, a ricostruirla dal profondo. Dunque, sono pochi gli artisti che oggi si pronunciano esplicitamente in merito.
Mi vengono in mente due esempi. Il Bel Paese di Maurizio Cattelan, anno 1994, un tappeto che riproduce la forma tonda del formaggio omonimo che notoriamente reca l’immagine dell’Italia, dunque un’opera calpestabile, sotto la quale è la terra, il suolo italiano, la nazione. Uno sguardo ironico sulle sorti del nostro Paese e sul ruolo dell’arte. L’altra è L’Italia in croce di Gaetano Pesce, datata 2011, un’installazione forte, un’Italia scarnificata e messa in croce: si tratta di un invito a riflettere, a voltare pagina, a ripensare il passato senza atteggiamenti nostalgici ma prendendo esempio da un’Italia che realizzava e guadagnava in prestigio internazionale e quindi anche dal punto di vista economico. E anche l’arte, che da sempre tende a dare forma a desideri e modelli, che spesso è veicolo di suggestioni ideologiche e politiche, che suggerisce contenuti e spunti, può fare la sua parte.
Dunque, il discorso si apre ad altre interessanti domande, ormai sempre più inevitabili e fatali nel panorama artistico nazionale. Una fra tutte: è ancora possibile parlare di arte italiana o di artisti italiani? Solo tentando un approccio alla risposta di questa domanda ci si potrà interrogare anche sulle modalità per sostenere e rilanciare le nostre istanze, anche sul piano internazionale.
Paola Di Giammaria
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