Il collasso del sistema educativo, il tramonto di una istruzione necessaria alla formazione del pensiero critico e l’inevitabile destabilizzazione nonché inaridimento dei ruoli pedagogici hanno prodotto, in Italia come altrove, un malessere collettivo avvertito non solo all’interno di un “precariato di massa che”, nonostante tutto, “tiene ancora in piedi la scuola”, ma anche uno scontento generale tra gli ambienti di una giovinezza reale che si documenta, che ha ancora la voglia e la speranza di poter cambiare lo stato attuale delle cose.
La scuola è finita, ha apostrofato – a ragion veduta e non senza rammarico – Roberto Ciccarelli sulle pagine di Alfabeta2. È finita perché non ci sono i presupposti per andare avanti, perché non ci sono gli strumenti e i materiali di base, perché la recherche di un posto a tempo indeterminato si risolve, oggi, in un avvilente quiz dal profumo scadente e nauseante. Ma non un quiz come quello diretto da Mike Bongiorno, il noto Lascia o Raddoppia dove hanno sfilato figure memorabili – Filiberto Menna (allora medico condotto, in qualità di esperto d’arte nel 1957) e John Cage (presente come esperto di funghi nel 1959) ne sono alcune – per arricchire il telespettatore italiano, piuttosto una squallida performance, “una prova d’esame o una selezione del personale” dove “non conta il percorso scolastico e professionale” degli insegnanti, “ma il valore d’uso della sua forza lavoro nell’istante in cui essa serve”.
L’impoverimento della didattica a discapito di una burocrazia sempre più esigente e lo sfiancamento del docente rappresentano, così, alcuni sintomi di una inevitabile rovina. Di un buco educativo utile a sradicare quella che Umberto Eco ha definito essere, in tempi non sospetti, “pratica della diffidenza quotidiana”. Un esercizio necessario a farsi una propria idea, a sospettare che il fatto sia, in molti casi, un semplice factoid (Mailer), uno pseudoevento (Dorfles), una velina rosa dietro la quale si nascondono apparecchi molto più complessi che mirano a massaggiare, ad addomesticare il cervello del singolo e della specie.
Tuttavia, nonostante i vari avvilimenti e le umiliazioni del sistema scolastico, nonostante i tagli radicali a un capitolo di spesa indispensabile, l’educazione si pone ancora come un continente culturologico irrinunciabile. Perché lo scopo di un’istruzione reale, sana, generosa e democratica, lontana dalla dittatura dei partiti o dai Wirtschaftswerte fondati sul saccheggio sfrenato delle risorse naturali (Beuys), è quello che, secondo Bertrand Russell, deve “trasmettere il senso del valore delle cose che non fanno parte delle forme di dominio”, deve “contribuire a creare i cittadini di una comunità libera” (Power: A New Social Analysis, 1938). Non a caso, accanto alle degenerazioni del sistema politico, alle deviazioni e alle devitalizzazioni dell’organismo istruttivo che vive un lutto e una mancanza quanto mai scoraggiante, ci sono bagliori di speranza, luci creative che continuano a vedere – è ancora Russell a scrivere – nell’“immaginazione le possibilità del futuro e il modo in cui esse devono essere realizzate” (Proposed Roads to Freedom, 1919).
Seppur sbiadita o eclissata in un circuito che ha derubato idee e principi formativi, l’educazione resta, allora, un luogo di affermazione dell’individualità, “di una salda identità personale”, evidenzia Fulvio Papi, “di un sufficiente senso della realtà, di una informazione adeguata alle domande sociali, di una attitudine creativa adatta a risolvere i problemi che si presentano, di un senso morale”, infine, “socialmente aperto e costruttivo” (Educazione, 1978).
Antonello Tolve
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #13/14
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