Hilla Ben Ari: da Tel Aviv a Roma
Abbiamo intervistato Hilla Ben Ari, artista israeliana selezionata per il progetto di residenze del Macro di Roma per il periodo agosto-novembre 2013. Progetti, aspettative e riflessioni su questa nuova esperienza. E qualche domanda sul panorama israeliano contemporaneo.
Sono stati annunciati pochi giorni fa i nomi degli otto vincitori del concorso internazionale per il programma Artisti in residenza del Macro di Roma per il 2013-2014, selezionati tra oltre 150 candidature. I primi quattro, sotto il coordinamento di Rossana Miele, lavoreranno nella sede del Museo da agosto a novembre di quest’anno, per poi concludere la loro esperienza con una mostra in sede della durata di due mesi. Gli artisti scelti dal comitato, formato da Bartolomeo Pietromarchi, Maria Alicata, Éric de Chassey e Maurizio Nannucci, sono l’israeliana Hilla Ben Ari, gli italiani Riccardo Beretta e Jacopo Milani, a cui si aggiunge l’indiano Sahej Rahal, la cui selezione rientra nell’ambito di Public, progetto promosso, ideato e organizzato da ZegnArt.
Abbiamo intervistato uno di loro, Hilla Ben Ari, nata nel Kibbutz Yagur, a pochi chilometri da Haifa, un’artista molto attiva in ambito nazionale e internazionale, come dimostrano le sue partecipazioni nei più importanti musei israeliani, e all’estero a Berlino, Pechino, Taiwan, New York, Bruxelles, Barcellona e Roma. Dalle risposte si evincono le sue impressioni e le sue aspettative in merito alla residenza al Macro, le opportunità, non solo in termini di visibilità e curriculum, ma anche per fini prettamente formativi, di crescita professionale e di sviluppo relazionale.
Sono stata spesso nel tuo studio a Tel Aviv, e l’ho trovato ogni volta un luogo molto accogliente e luminoso. Tuttavia non è uno spazio enorm”, malgrado tu lavori su progetti complessi ed elaborati per un lungo tempo che si risolvono quasi sempre in grandi installazioni site specific. Che effetto ti fa sapere che per i prossimi mesi sarai in uno studio di circa 120 mq, per giunta museale? Questo cambierà la tua processualità creativa?
In primo luogo vorrei dire che sono entusiasta di prendere parte al progetto di residenza presso il Macro; è una grande opportunità per me. Penso che avere uno studio all’interno del museo che funziona da spazio di lavoro e spazio espositivo, renderà sicuramente il mio processo creativo diverso. Sono molto curiosa.
Il luogo dove creo è certamente un’ulteriore fonte d’ispirazione. In passato ho avuto diversi studi, sia piccoli che grandi, uno spostamento per me affascinante, forse perché sto giocando con questa tensione tra piccolo e grande anche nei miei lavori.
La tua ricerca segue un percorso binario che riesce a coniugare mezzi apparentemente antitetici. Infatti, alla tua produzione video si affianca la realizzazione di grandi installazioni che spesso hanno come protagonista la carta. Come intendi contestualizzare per la residenza al Macro il tuo lavoro? Realizzerai anche per il museo romano un progetto in cui video e carta dialogano all’interno di una ricerca comune?
Sì, il mio piano è quello di continuare a lavorare su questo dialogo tra video e carta. Entrambi i mezzi mi permettono di sollevare questioni a me care come il corpo, i suoi confini, la sua violazione, la forza e la debolezza, il sostegno, il controllo, il potere e la violenza. In questo progetto desidero esplorare il punto di incontro di questi due medium attraverso il rapporto tra corpo e struttura, tema costantemente presente nei miei lavori, ma credo che questa volta sarà ancora più estremo.
La tua intera ricerca si è sempre concentrata sul corpo femminile inteso come materia espressiva, come metafora di un processo di ridefinizione identitaria, o viceversa come rappresentazione materiale di un imprigionamento fisico e mentale. Inoltre sia i tuoi video che le tue installazioni sono caratterizzati da una forte staticità. Penso ai video Seedling, Dusk, o Horizontal Standing, in cui, in maniera quasi warholiana, l’inquadratura è fissa mentre riprende soggetti che si muovono impercettibilmente. Un’idea di congelamento che ritroviamo anche nelle tue installazioni (penso a Lacuna, The Left Shoulder e Diana) che interagiscono con il pubblico e con l’ambiente ma sempre in modo “immobile” direi. Dunque continuerai a lavorare su queste tematiche?
Desidero continuare a lavorare su questi temi e vorrei esplorarli anche da diverse angolazioni. Nei miei lavori indago i limiti e i confini del corpo femminile, mettendolo a confronto con altri corpi o oggetti minacciosi che hanno la capacità di infierire sul corpo ma allo stesso tempo lo sostengono, esprimendo così la tensione senza fine tra fragilità e aggressività.
Questo concetto si manifesta anche nei miei lavori su carta, che sono spesso ripetitivi, legati uno all’altro. Quando lavoro con la carta provo a verificare come un materiale bidimensionale e fragile può sostenersi da solo nello spazio. Infatti, in molti dei miei lavori la carta imita materiali più resistenti e solidi come il metallo ad esempio. Questa dualità è presente anche nelle mie opere video che mettono in risalto il corpo nella sua fragilità, e allo stesso tempo ne evidenziano la forza che si evince dalla postura in continua tensione ed equilibrio. Eppure i lievi tremori prodotti proprio da questa costante tensione ne accentuano sistematicamente i suoi limiti.
Sei nata in un kibbutz, una delle tante piccole comunità fondate su ideali socialisti agli inizi del Novecento. Ti faccio la stessa domanda che ti ho posto la prima volta che ci siamo conosciute: in che modo il contesto geografico ha influenzato la tua arte? C’è una sorta di “israelianità” nel tuo lavoro, o pensi che non avrebbe fatto differenza nascere in un altro paese?
La mia identità di donna, di israeliana, di donna cresciuta in un kibbutz, è un elemento centrale nelle mie opere, a volte è più latente altre volte invece è più diretto, ma è sempre lì. Sicuramente è parte integrante del mio lavoro sul corpo, delle sue funzioni all’interno delle strutture e della sua identità.
Oltre due anni fa, quando ti ho chiesto cosa pensavi del panorama attuale dell’arte israeliana, mi hai risposto che si sarebbero visti sempre di più artisti del luogo lavorare fuori dal proprio Paese perché ora c’è una presa di coscienza della realtà e della propria identità più forte rispetto a prima. Effettivamente tu hai esposto molto all’estero e ora questa residenza ti vedrà per i prossimi mesi lontano da casa. Sei ancora dello stesso parere?
Sono felice di poter creare queste “finestre” aperte sul mondo. Allo stesso tempo però, è ancora molto importante per me per mantenere una relazione con Israele, che è un Paese attivo e vivace, benché sia così piccolo. Negli ultimi anni molti artisti israeliani si sono affermati a livello internazionale, ma credo che anche per molti di loro sia fondamentale mantenere un contatto tra Israele e l’estero.
Giorgia Calò
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