Il contrappasso dell’arte
Non più protetta dalle pareti del museo o incorniciata dalle pagine di un catalogo, l’immagine artistica diventa un contenuto come tutti gli altri. Le opere d’arte vivono un’esistenza parallela sul web, dove si mescolano con il maelström della cultura visiva e vengono modificate e scambiate senza paura. Il risultato? Un nuovo pubblico e un nuovo ruolo per l’arte contemporanea. Tutto da studiare.
Al fatto che qualsiasi cosa – oggetto, materiale, idea – possa diventare arte siamo da tempo abituati. Gli artisti hanno rivendicato questo “diritto illimitato” di appropriazione circa un secolo fa, ottenendo un duplice risultato: da un lato la pratica artistica ha ampliato enormemente le proprie possibilità espressive, dall’altra si è vista costretta a dipendere sempre di più, per la sua comprensione, da elementi esterni all’opera (la didascalia e il contesto). Per distinguere l’opera d’arte dall’oggetto comune è necessario avere informazioni sulla sua provenienza, conoscere il suo autore o più semplicemente farne esperienza nel contesto appropriato (il museo, la galleria, la fiera).
Da qualche anno, però, è in corso un processo del tutto inedito. Non è più solo l’arte ad appropriarsi di oggetti, idee ed elementi extra-artistici (pensiamo soprattutto al massiccio saccheggio di immagini e stilemi dalla cultura pop, dalla musica, dal cinema, dalla televisione), ma è divenuta essa stessa oggetto di pratiche appropriazioniste. Nel contesto del web, infatti, dove i contenuti viaggiano spesso senza etichetta all’interno di un flusso frenetico fatto di download, editing e upload, le immagini artistiche non godono di nessuno status speciale: sono file come tutti gli altri, semplici pacchetti di codice binario. Non ci sono cornici a segnalarle, né mura museali in grado di proteggerle dalla contaminazione. Non c’è bisogno di frequentare luoghi specifici per vederle, di leggere determinate pubblicazioni o di essere membri del sempre più anacronistico e ristretto “mondo dell’arte”. L’immagine di un’opera può apparire in qualsiasi pagina web, pubblicata accanto ai materiali più eterogenei: foto personali, gif animate, video di gattini, strisce umoristiche o schermate di film e videogiochi. Non solo: l’immagine può comparire nella sua forma originale o in una versione più o meno modificata. Le foto vengono editate, remixate insieme ad altre, commentate con didascalie o fumetti, utilizzate come materiali di partenza per nuove creazioni e infine re-inserite nel circuito comunicativo. Diventano contenuti virali, si trasformano in memi, vengono postate sui social network e usate come immagini del profilo, sfondi del desktop o del cellulare.
Da un lato, questo ci porta a postulare l’esistenza di un nuovo tipo di spettatore per l’arte, un pubblico casuale e non necessariamente informato, che si “imbatte” nelle opere durante le sue sessioni di internet surfing e non è in grado di distinguerle da tutte le altre immagini. Dall’altro, questo nuovo scenario costringe a una riflessione sul ruolo dell’arte contemporanea, divenuta – come ha scritto di recente il critico David Joselit nel suo libro After Art – uno strumento di costruzione dell’immaginario in mezzo a tanti altri: “In un mondo pieno di industrie dell’intrattenimento altamente sofisticate, come i videogiochi, siti web come Youtube e Vimeo, cellulari e tablet che funzionano da piattaforme multimediali mobili, film e televisione, per non parlare dell’aumentata possibilità che hanno le persone di viaggiare, che genera una tendenza a proiettare il desiderio di esperienze ‘esotiche’ su culture straniere, l’arte è solo uno dei tanti modi di produrre realtà alternative”.
Immagine tra le immagini, l’arte viene riassorbita nel maelström della cultura visiva, finendo per subire, da parte di una massa di anonimi creatori, lo stesso trattamento che lei stessa ha introdotto e praticato per decenni: un trattamento fatto di appropriazione, remix, détournement, costruzione di immagini surreali, uso del non-sense e dell’ironia come veicoli di risveglio dell’immaginazione e delle coscienze, elogio del fallimento (che oggi, al tempo della Rete, si chiama epic fail), giustapposizione di immagini e testi di diversa provenienza.
Su Internet, molte pratiche una volta esclusive – e distintive – dell’arte contemporanea sono ormai completamente assorbite nella quotidianità. Compresa la secolare tensione verso l’inclusione del pubblico nell’opera che ha contraddistinto la ricerca artistica per secoli e che è culminata nell’ondata della cosiddetta “arte relazionale”, non a caso approdata nelle mostre e nei libri di teoria alla metà degli Anni Novanta, proprio mentre i primi modem raggiungevano le scrivanie, aprendo una reale possibilità di interazione globale. Mettendo il pubblico, o meglio, l’ex-pubblico (quello che il teorico e giornalista americano Jay Rosen ha efficacemente definito “the people formerly known as the audience”) in una posizione dalla quale poter finalmente “rispondere” al bombardamento informativo. Dandogli gli strumenti per dismettere l’atteggiamento forzatamente passivo indotto dai media di tipo broadcast (tv e radio) e tornare a partecipare attivamente alla costruzione collettiva della cultura.
Valentina Tanni
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #12
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