Immigrati al museo
Come forse molti sanno, la GAMeC nel 2007 ha formato dei mediatori museali, vale a dire persone di 30 nazionalità e lingue diverse che vivono a Bergamo e provincia, il cui compito è di portare e guidare i propri connazionali alle mostre della GAMeC e dell’Accademia Carrara. La storia della libanese Maedeh Ziarati è esemplare in tal senso e per questo vale la pena di fargliela raccontare.
Qualche mese fa mi recai alla Galleria Minini di Brescia, dove incontrai il titolare Massimo che, dopo la visita alla mostra allora in corso, mi fece accomodare nel suo ufficio per un’amabile e interessante chiacchierata. Come sempre da qualche anno a questa parte, Massimo dopo un po’ che sei con lui tira fuori il suo iPad e ti mostra alcuni appunti di cose che sta scrivendo. Quello che sto raccontando potrebbe avere delle imprecisioni, in quanto è passato diverso tempo e i ricordi si sa sono mutevoli, in ogni modo quella volta mi fece vedere appunti di un articolo che stava scrivendo, ma non so se poi l’abbia pubblicato e dove. Rifletteva su arte e migrazione, infatti il testo parlava di come gli extracomunitari la pensassero rispetto all’arte, non solo all’arte moderna e contemporanea, ma soprattutto nei confronti del nostro grande patrimonio antico.
Ricordo che leggeva e diceva: “Ma noi che lavoriamo e difendiamo l’arte, dovremmo interessarci di cosa pensano gli altri popoli migranti che vivono e sempre più numerosi da noi e a cui non interessa l’arte come interessa a noi”. Nel dire questo si riferiva soprattutto a quel mondo musulmano che vive da noi e che non entra nelle gallerie d’arte, ma neanche nei musei. Insomma, l’interesse di Minini era come interfacciarsi con essi e come l’arte può servire ad aprire un dialogo. Naturalmente è una questione di cui noi sappiamo poco, anche se il mondo arabo si va sempre più aprendo alla nostra arte antica, moderna e contemporanea, come dimostrano le iniziative in proposito di aprire musei in partnership con il Louvre, il Pompidou, il Guggenheim, o le varie Biennali e fiere in crescita.
Ma l’interesse di Minini per questo nostro e loro mondo in evoluzione non è campato in aria e difatti è proprio di qualche mese fa la notizia che da Doha, Qatar, l’emirato più illuminato, sono state rispedite a o richiamate a casa due statue greche a cui le autorità locali volevano mettere le mutande come cinquecento anni fa da noi fece Daniele da Volterra con le pitture della Cappella Sistina di Michelangelo dietro ordine del Papa stilista, nel senso di menswear, Pio IV.
Detto ciò, queste riflessioni sono anche la spia di una questione più ampia che non riguarda solo l’arte e che è riemersa con forza in questi giorni con il dibattito sullo ius solis che continua a dividere i cittadini tra rimandare a casa gli immigrati e integrarli. A me non piace parlare delle mie cose, ma in questo caso si rende necessario e capirete da quanto segue qui sotto perché è una risposta non banale sulla questione, e anzi fa capire molto di quel e questo mondo e anche di come l’arte, soprattutto quella contemporanea, può aiutare in questa discussione. Insomma, è pure una risposta all’eterna domanda: a cosa serve l’arte?
Come forse molti sanno, la GAMeC nel 2007 ha formato dei mediatori museali, vale a dire persone di 30 nazionalità e lingue diverse che vivono a Bergamo e provincia, il cui compito è di portare e guidare i propri connazionali alle mostre della GAMeC e dell’Accademia Carrara. La storia della libanese Maedeh Ziarati è esemplare in tal senso e per questo vale la pena di fargliela raccontare. È una mediatrice museale che arriva in Italia nel 1991 dopo aver preso una laurea in Biologia presso l’American University of Beirut e insegnato scienze biologiche in una scuola media, mentre da noi ha intrapreso la strada della mediazione lavorando molto in campo sociale: in carcere, nella scuola, nell’ospedale e ora sta tenendo un seminario per gli studenti dell’Ateneo di Bergamo, iscritti al corso di Diritto Internazionale.
Ecco cosa ha raccontato della sua esperienza alla responsabile dei servizi educativi GAMeC, Giovanna Brambilla, che le ha chiesto se esiste un episodio del suo lavoro come mediatrice museale che la ha molto colpita: “La mia prima visita l’ho fatta per quindici donne arabe/marocchine. Tutte erano alla loro prima visita a un museo. Ho dovuto andarle a prendere e accompagnarle durante tutto il tragitto verso il museo. Sentivo la loro agitazione e curiosità. Il personale della GAMeC è stato meraviglioso, le ha accolte molto bene e si sono sentite a loro agio. Sentivo la loro agitazione svanire man mano che la visita proseguiva. Tutto era bello, tutto nuovo, tutto meritava la loro attenzione. Ma davanti all’opera di Pistoletto, ‘Venere degli stracci’, le donne si sono impietrite in un primo momento. Mi raccomandavano di non dire niente ai mariti! Ma dopo un attimo d’imbarazzo, la complicità femminile si è fatta avanti e sono cominciati gli scherzi e il divertimento vero e proprio. È come se quest’opera le avesse fatte sentire a loro agio. Strano ma vero. Sono ritornate a casa contentissime e mi hanno ringraziato molto. Il fatto che mi ha reso ulteriormente contenta sono state le mail di complimenti che ho ricevuto da alcuni educatori, mediatori e formatori che erano lì al momento della mia visita e che sono rimasti colpiti dalle espressioni di felicità delle donne. L’hanno descritta come una visita ‘storica’. Queste donne sono tornate altre due volte al museo; una volta con i mariti e un’altra volta con un’altra educatrice del museo.
Un altro episodio che mi piacerebbe raccontare è quello di gruppo di donne marocchine, sempre alla loro prima visita a un museo, e particolarmente di una di loro che è rimasta colpita in un modo esagerato dall’opera di Dorazio ‘Verso il raffreddamento’. Non staccava gli occhi e rimaneva sempre davanti al quadro a guardarlo e mi faceva delle domande per cercare di capirlo. Abbiamo fatto tutto il percorso ma lei continuava a ritornare ogni tanto per guardarlo di nuovo. Di sera mi chiama per ringraziarmi per averle regalato un’emozione indimenticabile e per aver spezzato la monotonia della sua vita in un modo bello. Le sue parole mi hanno fatto capire come l’arte può accorciare le distanze fra le persone a prescindere dalle loro appartenenza”.
Ho voluto raccontare questa esperienza perché credo dia molte risposte alle domande di Massimo, ma anche di tutti noi. Come sempre, sono domande di arte e vita.
Giacinto Di Pietrantonio
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #13/14
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