Intervista. La Saga di Giovanni Lindo Ferretti
Uno spettacolo, un cd, un film e una mostra dedicata ai costumi di scena. Il successo di “Saga. Il canto dei canti”, narrazione equestre generata dalle intuizioni di Giovanni Lindo Ferretti (ex cantante dei CCCP), è inarrestabile. Ne abbiamo parlato con il diretto interessato.
Appena andata in scena la seconda edizione nell’arena dei Chiostri di San Pietro, a Reggio Emilia, per l’opera equestre targata Giovanni Lindo Ferretti – Saga. Il canto dei canti – si raccolgono solo applausi e i suoi protagonisti fantasticano già sulla prossima edizione, perché questo non è uno spettacolo statico ma in assoluto divenire. Se l’ambizione di Saga, infatti, è quella raccontare la storia dell’Appennino Tosco-Emiliano basandosi su un canovaccio di idee che è sempre lo stesso, cambiano però i suoi protagonisti e il modo con cui questi comunicano coi loro interlocutori. Cambiano le emozioni trasmesse, il modo con cui vengono messe in scena e recepite. Quello di Saga, insomma, è un teatro nuovo, sperimentale e primitivo allo stesso tempo e a cui ogni anno si aggiunge un pezzo.
Come nasce? Il 30 maggio 2010. “Quando a casa mia, a Cerreto Alpi, abbiamo costituito una libera compagnia di uomini, cavalli e montagne”. A raccontarlo lo stesso Lindo Ferretti, che ci spiega tutto su questo spettacolo e su questa compagnia, la Corte Transumante di Nasseta, di cui si definisce signore delle parole. Insieme a lui Marcello (Ugoletti), signore dei cavalli, e Cinzia (Pellegri), che Lindo definisce “signora di tutto”. Perché nasce lì? “Perché la montagna ci collega. Come la passione per i cavalli”.
Come nasce l’idea di costruire e mantenere un teatro di questo tipo?
Bisogna dire che tutti e tre abbiamo una grande passione per la storia delle nostre montagne, luogo in cui sono tornato a vivere, in cui Marcello è sempre vissuto e in cui Cinzia si è trasferita dopo aver sposato Marcello. Ma anche una grande passione per i cavalli che io stesso avevo e che Marcello alleva e addestra, per pura passione, insieme a Cinzia. Tutto è nato come un esperimento per far vedere i nostri cavalli, i maremmani, considerati grezzi, ignoranti e tardi, e che per questo non si vedono nel mondo dello spettacolo. Noi, invece, volevamo lavorare coi cavalli della nostra tradizione: abbiamo messo insieme un po’ di musiche, qualche mia parola, l’esibizione di Cinzia e Marcello e abbiamo scoperto che in realtà racconto ed esibizione di cavalli era una cosa nuova, una bella sorpresa.
Di che tipo di teatro si tratta?
Il nostro non è un teatro basato su nessuna forma di ricerca o denuncia e qui in Italia è una delle prime opere – se non l’unica – di teatro equestre. Abbiamo cominciato mostrandolo in giro per le piccole fiere, sull’Appennino parmigiano, su quello modenese, in Toscana, alla fiera di Verona… e quando abbiamo scoperto che valeva la pena di lavorare attorno a questo progetto, abbiamo iniziato a immaginare uno spettacolo vero e proprio. Lo abbiamo messo in scena a Cerreto, in un giorno di festa paesana, preparando lo spazio scenico ma senza farci pubblicità. Abbiamo puntato tutto sull’arrivo dei cavalieri e sulla loro capacità di portarsi dietro il pubblico, un po’ come quando tanto tempo fa arrivava il circo.
E il risultato?
Per un’ora e un quarto i bambini e i ragazzini sono rimasti immobili, con la bocca spalancata, i vecchi piangevano tutti e gli adulti erano stupiti, a tratti increduli. Nessuno di loro accennava ad andarsene, anzi: la gente continuava ad arrivare. A sorprenderci è stato l’impatto emotivo che la nostra idea ha avuto sul pubblico, una reazione talmente al di sopra delle nostre aspettative che abbiamo pensato valesse la pena di proseguire con Saga.
E sembra proprio ci siate riusciti.
Dieci cavalli che arrivano in un paese di montagna, cavalcati da persone, già coi costumi di scena, belli, scuri e un po’ spaventosi… Di sicuro attiravamo l’attenzione. Ma per noi in quel giorno si decideva tutto: abbiamo messo in scena l’edizione n.00 dello spettacolo e solo se la cosa fosse funzionata saremmo andati avanti.
Dall’anno scorso, prima edizione ai Chiostri di San Pietro, a oggi cos’è cambiato nello spettacolo?
Beh, metà dei cavalli che abbiamo quest’anno, per dire, l’anno scorso non li avevamo. I cavalli sono cresciuti, ce ne sono di nuovi nati. L’evolversi delle situazioni, della vita, ci obbliga a far fronte a qualcosa che non poteva esserci l’anno scorso e a qualcosa che non potrà esserci l’anno prossimo. È un tipo di teatro, basato su narrazioni, musica e cavalli in continuo divenire. E col passare dei giorni le persone non sono più quelle. Come gli attori, il tempo e il modo di raccontare le cose. Non c’è niente che rimanga tale.
La storia però è la stessa?
L’idea è raccontare la storia epica delle nostre montagne. Però ogni anno la metti in scena in un modo diverso. L’anno scorso, ad esempio, lo spettacolo era giocato su due voci maschili e le basi musicali, ma quest’anno è uscito un disco su Saga giocato sulla mia voce e gli strumenti, e di conseguenza anche lo spettacolo ha fatto un passo in avanti: a un certo punto non ci sono più le basi elettroniche ma solo voce e violino. E le stesse cose fatte con una voce e un violino cambiamo completamente. Per cui diciamo che raccontiamo la stessa storia, però lo facciamo in modo diverso, con cavalli diversi, con un approccio diverso.
Quest’anno poi avete anche nuove armature.
Abbiamo conosciuto uno scultore lo scorso inverno, Davide dall’Osso. Lui ha lavorato molto sulle forme equestri e ha iniziato a costruire le armature, un’idea di un’armatura barbarica, romana, medioevale nata dalla fusione di materiale plastico e di recupero che alla vista sembra simile al bronzo. Un nuovo dettaglio che si aggiunge al nostro spettacolo e che se ha ragion d’essere piano calamita a sé tutte le persone che gli servono.
Ma in cosa si differenzia il teatro equestre dalle altre forme di teatro?
Il teatro serve a darti delle visioni, può farti ragionare. E se, poi, tu metti in scena il passaggio tra civiltà romana e Medio Evo, lo puoi fare in mille modi. Noi lo facciamo coi nostri cavalli. I cavalli si muovono in maniera diversa, ci sono momenti in cui sono soli e per noi è importante far vedere la loro maestosità. La capacità che hanno i cavalli di stupirti ed emozionarti, il modo in cui si muovono e si rapportano tra di loro è bellissimo ed è una delle necessità di questo teatro che, qui in Italia, non ha esempi d’ispirazione né conserva una memoria d’addestramento di alto livello.
Nessun esempio, nessuna fonte d’ispirazione?
Per trovare forme di teatro equestre si va in Spagna, ma il loro è un teatro basato sulla loro tradizione, o in Francia, con Clément Marty e il teatro zingaro. Anche se non c’è paragone tra il suo teatro e il nostro teatro, da nessun punto di vista, tutti e due pratichiamo la stessa idea di teatro, cioè quella di raccontare storie con i cavalli, emozionando e tenendo viva l’attenzione del pubblico.
Noi lo facciamo raccontando la storia della nostra gente e delle nostre montagne. Comincia dalla preistoria e arriva ai giorni nostri attraverso una serie di messe in scene dall’età barbarica all’arrivo di Roma, le guerre bizantine, le avventure di Matilde di Canossa, il mondo moderno giocando su due atti: ciò che fu e ciò che è.
E arriviamo al cd, prodotto dalla Sony.
Quella che l’anno scorso era un’idea di colonna sonora è diventato un cd e quello che era il racconto ha assunto una dimensione ancora più teatrale. Tutto è stato costruito come un’opera. Alla base c’è un libretto con un testo che ho scritto io e una visione di come più o meno doveva essere messo in scena. Poi, per le musiche, ho lavorato con Lorenzo Esposito Fornasari, che conosco da sempre, e che per Saga ha scritto una partitura che ha fatto suonare e registrare. È uscita un’opera giocata sul libretto con recitati, ballate e canti, un’opera contemporanea giocata sul teatro equestre dove gli strumenti elettronici, sintetici, lasciano spazio al suono degli strumenti veri. Io la definisco una musica regressive (ironizzando sulla progressive degli Anni Settanta).
In parallelo prende vita anche il film Fedele alla linea.
Quando abbiamo iniziato a lavorare intorno al teatro equestre, abbiamo iniziato anche a fare delle riprese. Viviamo in un mondo fondato sulle immagini e sulle fiction e ci siamo detti: “Raccontiamo la storia anche con il cinema, che se per caso col teatro non riusciamo a farlo, almeno rimane il racconto su pellicola”. Il regista però mi prese da parte e mi disse: “Voglio raccontare la saga della tua vita in cui l’ultimo pezzo è questo qua del teatro”. Gli ho risposto: “Ok, tu sei regista. Lavora bene e io sono disposto a fare quello che mi chiedi”. Lo spettacolo, quindi, è marginale e il film è diventato il film della mia vita.
Con un titolo che rimanda al tuo percorso musicale…
Non ero molto d’accordo sul titolo, a dire la verità. Però poi ho accettato.
E tu a quale linea sei fedele, adesso?
Alla mia vita. I mongoli dicono che la linea più banale che unisce due punti è quella retta. Potresti, cioè, fare qualsiasi linea, dall’arabesco allo zigzagare all’infinito: ogni storia può essere tragica o meravigliosa, ma quella della linea retta è banale, l’unica che non ha niente da raccontare. Ecco. Io potrei utilizzare una similitudine del genere per rispondere a questa domanda e la mia linea è la mia vita.
E di certo la tua linea non è stata retta.
Alla fine il discorso è molto semplice. Non ero soddisfatto di quello che stavo facendo. Tu cominci a fare delle cose perché pensi che ti porteranno grandi soddisfazioni, perché pensi di aprire una porta che sarà piena di libertà e di nuove esperienze. Poi, fatto un bel pezzo di strada, ti guardi intorno e ti dici: “Bene, ma tutte queste soddisfazioni dove sono? Tutta questa libertà dov’è?”. Alla fine, tutto si riduce alla capacità di non raccontarsi le bugie. Se una cosa non è soddisfacente, puoi continuare a dire che è bella, però se non ti racconti le bugie ti dici: “Oh, non vale niente”. E se te lo dici, non rimani sul vuoto.
Per questo hai scelto la strada spirituale?
Lo dico sempre: sono stato un bambino cattolico e felice. Eravamo molto poveri, mio padre era morto, vivevo con una vecchia nonna e mia madre andava sempre a lavorare, ma per me la vita era bellissima e quello era il paradiso in terra. Sono stato allevato come un bimbo cattolico credendo profondamente. Quando sono cresciuto ho abbandonato questo mondo ma quando mi sono ritrovato a pensare che tutto quello che avevo fatto di mia spontanea volontà non era così soddisfacente come avevo immaginato o come avrei voluto che fosse, ho pensato che forse era il caso che io ripartissi da un’altra parte. È stata una cosa molto naturale e sono tornato a vivere in montagna, in un posto dove non vive nessuno.
A Cerreto Alpi.
In tanti posti dove sono stato ho sempre pensato che ci avrei vissuto volentieri per poi fare i conti con il fatto che il posto in cui io ero nato è quello che mi aiuta di più. Le cose non andranno sempre bene, però non c’è nessun posto al mondo in cui io non mi senta più legittimo di casa mia, posto che conosco, che fa parte di me, della mia storia. Dopo aver abbandonato la famiglia e aver vissuto la maggior parte della mia vita ovunque, sono tornato a casa e in realtà mi sento sempre più simile a mio padre, a mia nonna, mio zio, mio bisnonno.
Un ritorno alle origini.
Non avrei mai immaginato, ma nella mia vita è stato così. Per un lungo periodo non ho fatto altro che chiudere ponti dietro di me, eppure quello che c’era alle mie spalle era molto più forte di tante scelte fatte. Alla fine penso di essere sempre un vecchio punkettone. Ognuno ha il diritto di pensare tutto il male possibile delle mie scelte attuali, però quando sono tornato da Berlino e, qui, a Reggio Emilia, decidemmo di fondare i CCCP, non è che si pensasse molto bene delle nostre scelte. Neppure allora. Però era quello che noi stavamo facendo.
Allora come oggi la storia si ripete: le tue scelte sono contestate.
Noi allora consideravamo il punk una specie di avanguardia artistica e letteraria, qualcosa di molto vitale che voleva che ogni cosa a un certo punto diventasse scolastica, accademica, dove valeva soltanto la capacità tecnica. Però la vita non è riducibile alla capacità tecnica, c’è sempre qualcosa che la supera o la sgretola. E quindi, per certi versi, io posso pensare che fare un teatro equestre e barbarico, nell’anno 2013, a sessant’anni, sia la cosa più equivalente alla fondazione dei CCCP. Oggi come allora, avevo lo stesso sguardo sul mondo. I CCCP erano un gruppo musicale ma in realtà la nostra storia era già fondamenta del teatro barbarico, un colpo d’occhio di un teatro molto primitivo e grezzo. Alla fine l’emozione di fondo è la stessa e me ne prendo oneri e onori.
Silvia Parmeggiani
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