La Biennale in vendita
La Biennale di Venezia è una delle istituzioni dell’arte con la più alta capacità di consacrare la reputazione di un artista. È dunque fatalmente legata al mercato, anche quando predicare - magari in buona fede - purezza e autonomia. Ma allora perché non riaprire l’ufficio vendite?
Quando venne fondata la Biennale di Venezia nel 1895, uno dei principali obiettivi era quello di creare un mercato per l’arte contemporanea e un collezionismo a essa rivolto. Venne organizzato un ufficio vendite fin da subito, che tratteneva il 10% di commissione sul prezzo di vendita delle opere esposte, riscuotendo un tale successo che gli organizzatori riuscirono a donare una parte dei proventi in beneficenza. La traccia di queste transazioni è reperibile nell’Archivio Storico della Biennale, con i registri in cui venivano segnate le opere vendute, gli acquirenti e il prezzo di vendita.
Claudia Gian Ferrari, nel suo saggio Le vendite alla Biennale dal 1920 al 1950. Appunti per una storia del gusto attraverso l’analisi del mercato, ha utilizzato questi dati per analizzare edizione dopo edizione l’evoluzione delle vendite, dal primo dopoguerra al 1950, passando per gli anni in cui era proprio suo padre il responsabile dell’ufficio. Si evidenzia così la trasformazione delle scelte di collezionismo, da quello più ancorato ai canoni dell’Ottocento e ai suoi tratti accademici, a quello più aperto verso le proposte contemporanee, con non poche contraddizioni alla luce di una lettura a posteriori. Ad esempio, nella Biennale del 1922 non ebbero alcun successo Modigliani, Bonnard e Monet, per citarne alcuni, ma nemmeno Carrà, il quale dovrà aspettare il 1928 per vedere quattro opere acquistate dai musei italiani. Nel 1930 anche i grandi Klee, Moore, Ernst e Hopper non ebbero ancora alcun riscontro sul mercato.
Per fare qualche esempio quantitativo, nella prima Biennale del dopoguerra, quella del 1920, su 1.805 opere esposte ne furono vendute 682, delle quali 263 italiane e 419 straniere, per un totale di 2.628.747 lire. Per tutti gli Anni Venti, le percentuali delle opere vendute si attestano intorno al 10- 15% sul totale delle esposte, con un crollo dal 1930 dopo la crisi del ’29. In questa edizione, la Galleria d’Arte Moderna di Milano acquista una natura morta di Morandi per 2.200 lire, molto poco in confronto alle 9.000 spese per Casorati e Romanelli.
Fino a quel momento i principali acquirenti erano collezionisti privati, italiani, con una piccola percentuale di enti pubblici e privati che facevano più che altro una scelta d’immagine. A partire dagli Anni Trenta, invece, si delinea una nuova tendenza: saranno i musei i principali compratori e l’attenzione inizierà a focalizzarsi su De Pisis, de Chirico, Casorati, Depero e i Futuristi. Inoltre, iniziano ad affacciarsi i musei stranieri, primi fra tutti il Whitney Museum e la Galleria Nazionale di Berlino, attenti all’arte italiana. Dal 1942 venne affidato l’incarico dell’ufficio vendite a Ettore Gian Ferrari, grazie al quale le vendite arrivarono a raddoppiare dopo anni di discesa, totalizzando in quella edizione 3.715.286 lire. Anche a lui spettava una percentuale sulle vendite, il 2% sulla percentuale spettante alla Biennale, percentuale che nel frattempo era cresciuta al 15%. Anche grazie alla sua figura si inverte nuovamente la tendenza e saranno i privati a prevalere negli acquisti, con il 76% del mercato.
Nel 1968 le proteste studentesche e degli intellettuali si accanirono contro questo organo della Biennale, accusato di essere uno strumento del capitalismo. D’altro canto, iniziava a prendere forma una struttura di mercato in cui gli artisti venivano introdotti alla Biennale dai mercanti, che si occupavano personalmente delle trattative con musei e collezionisti. Il mercato non è mai uscito dagli spazi della Biennale, ha semplicemente spostato i guadagni a favore di galleristi e mercanti, perdendo la possibilità di guadagno per l’organizzazione.
Nel 1993 Achille Bonito Oliva lancia la proposta di riaprire l’ufficio vendite. A sostegno dell’iniziativa, una ricerca dell’Università di Venezia: dal 1895 e il 1914 la Biennale ha incassato l’equivalente di circa 40 miliardi di lire al 1993. L’ufficio non ha riaperto, ma gli affari continuano ad andare alla grande per i galleristi che rappresentano gli artisti presenti in laguna: nel 2007 la White Cube ha venduto gran parte delle opere di Tracey Emin presenti nel Padiglione inglese ancora prima dell’apertura; nel 2011 la maestosa candela di Urs Fischer modellata a scultura del Giambologna è stata venduta prima dell’inaugurazione per oltre 3 milioni di dollari. Nel 2003 Victoria Miro propone un proprio ufficio vendite di fronte al Padiglione inglese: al punto di accoglienza si potevano acquistare le edizioni limitate di Chris Ofili, realizzate appositamente per l’evento, in tiratura limitata di 350 copie, al prezzo di 500 euro.
Nel 2009 Paolo Baratta prova a rimarcare l’autonomia della Biennale dal mercato, il cui ruolo fondamentale “non è quello di segnalare l’andamento delle quotazioni di mercato dell’arte, ma di osservare dove stanno andando gli artisti e, attraverso l’arte, dove sta andando il mondo”. Mentre pronuncia queste parole, i Padiglioni nazionali pullulano di galleristi impegnati a svolgere il loro lavoro. Se quest’anno Bartolomeo Pietromarchi ha lanciato un’iniziativa di crowdfounding a favore del Padiglione Italia, il ripristino di un ufficio vendite per trattenere una percentuale sul guadagno dei galleristi e dei mercanti non sarebbe un’idea da scartare…
Martina Gambillara
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #13/14
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