Patrimonio, conoscenza e fantasia
Colpisce la mancanza, in chi è chiamato a fare scelte nel campo della gestione del patrimonio culturale del nostro Paese, di due doti apparentemente opposte, ma entrambe indispensabili: una solida conoscenza (del patrimonio stesso e in particolare delle priorità di intervento) e una vivace e vivificante fantasia, intesa come capacità di immaginare modalità inedite di produzione e fruizione della cultura.
L’intera classe dirigente, o digerente, se si preferisce, è affetta da tale mancanza: lo sono i politici e gli amministratori, i funzionari ai vertici delle macchine amministrative, molti soprintendenti, gli imprenditori, i consigli d’amministrazione delle fondazioni bancarie. Conseguenza della duplice carenza è lo stallo, il trionfo dello status quo sull’innovazione; e questo riveste un ruolo importante nell’attuale crisi della gestione del patrimonio. Non basta attribuire tutte le colpe alla mancanza di risorse, che pure costituisce un nodo centrale ed è d’altra parte riconducibile a scelte politiche, più che a circostanze oggettive.
Se capire la necessità di una solida competenza in materia è piuttosto intuitivo, alcuni esempi di fantasia applicata ai beni culturali possono far comprendere meglio di cosa si tratti. Obiettivo comune sotteso alle idee che seguono è quello di riavvicinare patrimonio e cittadinanza, invertendo la tendenza a uno scollamento tra l’uno e l’altra che, al di là della retorica e dei numeri delle grandi mostre e delle Giornate del FAI, è sempre più marcata. Il patrimonio monumentale va demonumentalizzato e reinserito nel tessuto vivo delle città attraverso una pluralità di usi (continuativi, non eventi effimeri) che ambiscano a ridefinire e “aggiornare” l’identità del bene culturale e consentano la riappropriazione fisica degli spazi da parte dei cittadini. L’individuazione delle funzioni è terreno d’azione privilegiato dell’immaginazione, ovviamente non disgiunta da una profonda conoscenza del bene, delle necessità della tutela e dei bisogni e delle aspirazioni della comunità. Il discorso vale innanzitutto per le rovine antiche e gli scavi archeologici urbani, in gran parte ridotti a spazi morti e inaccessibili; tramite interventi architettonici e rifunzionalizzazioni, si potrebbe riannodare il filo della plurisecolare storia del reimpiego dei monumenti antichi, reciso fra Otto e Novecento. Riusciamo a immaginare le conseguenze che questa svolta avrebbe per quell’immenso cadavere crivellato che è Roma?
Va ricomposta la dicotomia tra mostre e musei che caratterizza, a tutto vantaggio delle prime, il panorama espositivo. Il problematico trionfo delle esposizioni temporanee ci insegna che, piaccia o meno, il pubblico sempre più preferisce alla difficile polifonia del museo tradizionale la monodia delle mostre o, per dirla con un termine di moda, una narrazione. I grandi musei devono quindi puntare a trasformare i loro percorsi espositivi in “mostre museali” di consistente durata (6-8 mesi), con pezzi del museo integrati, se occorre, da qualche prestito significativo. L’istituzione museale risulterebbe più dinamica e i cittadini la visiterebbero più spesso. Si attiverebbe un circolo virtuoso tra le sale espositive e i depositi, riscattando questi ultimi da quel vero e proprio odio nei loro confronti che si va ingiustamente diffondendo. Si placherebbe la sete di spazi dei musei, obbligati dall’assurda introduzione in questo ambito dell’idea di competitività di matrice neoliberista (“competo, dunque sono”) a ingrandire gli spazi espositivi (la Grande Brera, i Grandi Uffizi), in una riedizione d’alto bordo della bolla immobiliare.
Si possono immaginare nuovi modi di presentare le opere, nuove modalità di “esecuzione”, per dirla con un termine preso in prestito dal mondo della musica. Come nel caso del reimpiego, la fantasia può tradursi nel recupero di pratiche del passato. Il riferimento alla musica non è casuale: pensiamo a come, da una cinquantina d’anni a questa parte, l’ondata di esecuzioni filologiche (con strumenti antichi e secondo le prassi esecutive di secoli fa) abbia portato alla riscoperta della musica antica e barocca, rivitalizzando partiture di straordinaria bellezza. Si potrebbero quindi proporre esecuzioni all’antica di quadri e sculture, ridimensionando ad esempio la moda dell’illuminazione con faretti che, specie nel caso di statue e rilievi, altera gravemente le forme. Andrebbe privilegiata, pertanto, l’illuminazione naturale; ma si potrebbe pensare anche a visite a lume di candela (o con surrogati tecnologici), per riproporre uno dei modi in cui un tempo l’arte veniva fruita e per apprezzare l’effetto della luce guizzante della fiamma sulle superfici.
Dallo stallo alle stelle: mille altre idee e ideuzze come queste possono aiutarci a risalire la china. Perché la fantasia opera non solo nel momento della creazione dell’opera d’arte, ma anche in quello della sua trasmissione.
Fabrizio Federici
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #13/14
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