Sarah Sze e Jeremy Deller a Venezia
Chi ha detto che alla Biennale di Venezia 2013 non ci sono installazioni? I padiglioni di Usa e Uk, affidati a Sarah Sze e Jeremy Deller, ospitano interventi che dialogano con l’architettura in modo marcato.
Triple Point, la stravaccata installazione presentata per il padiglione americano da Sarah Sze (Boston, 1969; vive a New York), contrasta spiccatamente con l’enfasi sulle cosmologie personali e coi molti lavori bidimensionali di misura ridotta che dominano la mostra di Massimiliano Gioni. Non solo le singole opere della rappresentante statunitense occupano ciascuna una stanza intera, ma si riversano anche nel quartiere adiacente, con elementi installati sui davanzali di finestre delle abitazioni e sulle bancarelle dei fruttivendoli. Sze amalgama a sé la struttura del padiglione con un’opera bulbosa che la ingloba, colando dal tetto come un’eruzione lavica.
Anche se molto estese e girovaganti, le sculture di Sze non sono monumentali, bensì tenue filigrane assemblate da piccoli, insignificanti rifiuti quotidiani: cotton fioc, biglietti del traghetto, sacchetti di the. È proprio la facile riconoscibilità combinata con la profonda banalità degli elementi costitutivi delle sue opere a ostacolare qualsiasi tentativo di attribuire alle sue installazioni valenza metaforica, allusiva o referenziale. Invece, i suoi lavori operano mutazioni di scala, manipolano lo spazio, destabilizzando la percezione: anche se di grandi dimensioni, conducono l’occhio a soffermarsi sui dettagli, sugli accenni metonimici, che funzionano come miriadi di microcosmi. Ciò pone i riflettori sulla relazione tra sé e spazio circostante; nel contesto della Biennale, lo stratagemma di Sze dà inaspettato risalto alla differenza tra il padiglione statunitense e gli altri edifici storici, che hanno architettonicamente un impatto più macho, come i padiglioni di Gran Bretagna, Francia e Germania.
Jeremy Deller (Londra, 1966), il rappresentante della Gran Bretagna, sfrutta l’esterno pomposo del padiglione come parte di una serie di lavori che insieme tessono una complessa sintesi quasi antropologica. La struttura giace all’apice di una salita in cima al viale principale, ed è resa ancora più imponente dalla scalinata d’accesso in marmo bianco. Già da lontano, salendo appunto lungo il viale, si intravede un dipinto murale di un uccello gigantesco che stringe nei suoi artigli una Range Rover, simbolo del consumismo. Materiale didattico ci informa che questo uccello è uno Hen Harrier, specie protetta, che si sospetta essere stata cacciata dal principe Harry. In un altro murale, un enorme William Morris, socialista libertario inglese e designer di tessuti, scaraventa in acqua lo yacht del magnate russo Abramovic. Ancora, è rappresentata una futura rivolta violenta contro il sistema bancario e di evasione di tasse permesso dal paradiso fiscale britannico Jersey.
Ma la mostra di Deller, che si intitola English Magic, contiene anche suggestioni positive. Accanto a riferimenti al conflitto di classe si trovano asce preistoriche rinvenute nel Tamigi che il visitatore può toccare, immagini di David Bowie, un video di una riproduzione di Stonehenge fatta da Deller, gonfiabile, su cui bambini saltano divertendosi. Deller ha orchestrato una mostra che spazia in millenni, modalità e tematiche attuali e non, ma che rimane coerente perché centrata su un’autoriflessione politico-culturale, cioè sul cosa voglia dire essere inglesi. C’è anche una sala da the, che Deller specifica non essere un’opera d’arte, ma semplicemente un posto dove rigenerarsi, perché la Biennale è faticosa. Molto British.
Daniela Salvioni
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