Ars Aevi. Arte e economia dello sviluppo a Sarajevo
L'apertura di Ars Aevi, museo d'arte contemporanea della capitale bosniaca, è fissata per il 2014, a un secolo dal primo conflitto mondiale. Effetto Bilbao o progettualità lungimirante? L'obiettivo è rilanciare una città a partire dal passato. Con alcune peculiarità. Parla il direttore generale del progetto Enver Hadžiomerspahić, a Venezia con una mostra dedicata all'amicizia.
158 opere di artisti da tutto il mondo, conservate in un deposito temporaneo, aspettano di essere esposte in un nuovo museo d’arte disegnato da un’archistar. Potrebbe trattarsi dell’ultima strategia culturale, ampiamente praticata, di qualsiasi città del globo. Con una differenza: la collezione nasce nel ’94, ben prima di trovare dimora nella Sarajevo al domani della guerra dei Balcani. A oggi i promotori della collezione, fortemente voluta da Enver Hadžiomerspahić, ideatore e direttore generale del progetto, sono dodici: musei, gallerie e centri per l’arte di otto Paesi europei geograficamente e culturalmente vicini alla Bosnia-Erzegovina. Ars Aevi è l’anagramma di Sarajevo, dove la ‘o’ diventa un logo simile a un tao orientale: due simboli uguali e opposti individuano una campitura nera a spirale, come il centro di una galassia o un buco nero. Fiducia nelle potenzialità di una rinascita, con la consapevolezza delle difficoltà propria di chi scommette con il caso.
Enver, come nasce la collezione Ars Aevi?
La mia vita ha conosciuto due parti: la prima nel periodo del socialismo, nella Sarajevo della Jugoslavia di Tito. La seconda sotto l’assedio, la guerra e l’arrivo del capitalismo. Durante l’epoca del socialismo abbiamo vissuto una vita del tutto singolare e condiviso un destino comune: un paradiso per quanto riguarda i rapporti umani. Sono stato direttore organizzativo della Biennale di Sarajevo, la Jugoslovenska dokumenta, nel 1987 e nel 1989, quest’ultima edizione particolarmente soddisfacente per noi dell’organizzazione. Pianificavamo di internazionalizzare l’edizione del 1991 quando è scoppiata la guerra, e sono rimasto nella Sarajevo assediata insieme a tutti i miei amici.
Fin dai primi mesi dell’assedio sentivo che ciò che stava accadendo era una grande ingiustizia verso la città, dieci anni prima sede olimpica dei Giochi invernali, abbandonata a se stessa. Così ho creduto fortemente che gli artisti, con la loro irripetibile sensibilità, avrebbero reagito a tutto questo. E ho pensato di invitare i più grandi e affermati a livello internazionale a creare una collezione di opere per un futuro museo cittadino d’arte contemporanea. Un’assemblea degli intellettuali della città e un consiglio comunale hanno approvato sotto i bombardamenti la mia iniziativa. Fra grosse difficoltà e svariate richieste di permessi, ho potuto raggiungere l’Italia con un aereo degli aiuti umanitari. Ho trovato il primo sostegno in Lombardia grazie agli amici di ArciMilano, che hanno preparato tutto il necessario per il lancio internazionale del progetto. È stata scelta la Biennale di Venezia: nel giugno di vent’anni fa sono arrivato qui. Era la 45. edizione.
Secondo quali criteri è avvenuta la selezione degli artisti ora in collezione?
Selezionare gli artisti è stato difficile. Le opzioni erano diverse: avremmo potuto aprire le porte a tutti, ma in questo caso avremmo perso di vista la qualità delle opere. Abbiamo quindi cercato di scegliere dei critici d’arte, liberi di indicare personalmente degli artisti: ma i critici sarebbero potuti essere forse troppo inclini verso una corrente artistica piuttosto che un’altra, obiettivo estraneo al progetto. Così abbiamo deciso di aprire la collaborazione a musei e istituzioni per l’arte, di base nei Paesi geograficamente e culturalmente vicini alla Bosnia-Erzegovina. Il migliore modello che abbiamo individuato è questo: diventare partner di diverse realtà espositive europee, chiedendo a ogni direttore artistico nostro sostenitore di selezionare una rosa di dieci artisti di diverse nazionalità; questo a condizione che non vi fossero più di due artisti del Paese dove l’istituzione avesse sede. Abbiamo cercato di garantire con tale criterio l’internazionalità degli artisti e la qualità delle opere.
Vi siete trovati nella condizione di rifiutare alcune donazioni? E avete mai ricevuto risposte negative alle richieste di collaborazione?
Il principio della comunicazione non è stato quello delle richieste. È stato un percorso assolutamente spontaneo: io e mio figlio Anur, creatore delle strategie e attuale responsabile della comunicazione del progetto, abbiamo iniziato la prima collaborazione nel ’94 a Milano con Enrico Comi, direttore del Centro Arte Contemporanea Spazio Umano. Si è poi sviluppato negli anni successivi il rapporto d’amicizia con la famiglia Lucchesi, in Toscana, e con il sindaco di Prato e il Museo Luigi Pecci, diretto a quel tempo da Bruno Corà. Nel ’96 siamo diventati partner della Moderna Galerija di Lubiana. Nel ’97 la Fondazione Querini Stampalia e la Fondazione Bevilacqua La Masa hanno donato nuove opere, esposte a Palazzo Querini Stampalia per iniziativa di Chiara Bertola, in occasione della Biennale di Venezia. Lóránd Hegyi, allora direttore del Museo Ludwig Stiftung di Vienna, ha chiesto di incontrarmi dopo aver visto la mostra veneziana. Sono bastati pochi minuti perché entrassimo tutti in sintonia, anche quando abbiamo dovuto prendere le decisioni più importanti.
Ci sono arrivate proposte che purtroppo non abbiamo potuto accettare: ancora oggi ricordo con rammarico l’offerta del MACBA di Barcellona. Allora il suo direttore avrebbe voluto donare alla collezione delle opere di dieci artisti catalani e spagnoli, ma non eravamo in grado di accettare donazioni che rappresentassero artisti di un’area geopolitica maggioritaria. Credo tuttavia ci sia la possibilità di nuove acquisizioni da Barcellona: di recente abbiamo riavviato i contatti col museo.
Aveva delle aspettative? Se sì, sono state soddisfatte?
Sono nato ottimista. Ma non avrei mai potuto immaginare una risposta così positiva da parte di artisti, curatori e critici di tale importanza. In vent’anni siamo diventati tutti amici, e questo è esemplare: Antonio Lucchesi, uno dei primi nostri sostenitori, Claudio Martini, allora presidente della Regione Toscana, Massimo Cacciari, ex sindaco di Venezia. I fondatori della collezione sentono Ars Aevi, ancora oggi, come un progetto comune. Nel nostro percorso non c’è egocentrismo o una figura dominante: siamo tutti uguali, perché lavoriamo per ottenere un risultato d’insieme, un po’ come all’epoca del socialismo.
Crede sia possibile coniugare un approccio museale di tipo conservativo in relazione all’arte degli ultimi decenni, propria del vostro progetto, con l’innovazione artistica attuale, specie della Bosnia-Erzegovina? Se sì, in che modo?
Già da tempo abbiamo pensato che potesse essere importante un arricchimento della collezione con artisti esordienti. Così abbiamo deciso di invitare tutti i direttori artistici coinvolti a selezionare nuovi artisti all’inizio della propria carriera. Abbiamo chiesto a ogni direttore di scegliere tre nomi: un artista di Sarajevo, un artista proveniente dall’Est e uno dall’Ovest. È nata in questo modo la collezione Rendez-vous. Abbiamo poi invitato quattro autorevoli critici d’arte della Bosnia-Erzegovina a scegliere, ognuno, tre fra i più importanti artisti del Paese: così oggi dodici opere di artisti del luogo affiancano le donazioni di alcuni tra i maggiori artisti internazionali. Una scelta che guarda al futuro. Pensiamo che questa strategia del processo di arricchimento della collezione si debba preservare: ha portato splendidi risultati.
Quali sono i programmi per lo spazio espositivo veneziano?
Siamo qui, da dove tutto è partito, per presentare a livello internazionale lo stato d’avanzamento del progetto. Ringrazio infinitamente il Comune di Venezia, che ci ha concesso a titolo gratuito ampia parte della tesa 105 all’Arsenale Nord, aperta fino al 24 novembre. Abbiamo deciso di esporre due opere provenienti da ogni sezione della collezione, divise per la città di provenienza di tutte le istituzioni fondatrici. Fino a novembre la mostra sarà ulteriormente arricchita di opere della collezione. Non abbiamo potuto portare tutte le opere da Sarajevo, sistemate temporaneamente al Centro Skenderija in attesa del futuro museo di Renzo Piano. Qui a Venezia è inoltre presentato il progetto architettonico del museo, donato da Piano in qualità di ambasciatore dell’Onu. Siamo giunti alla fase finale del nostro percorso, con la posa della prima pietra del centro espositivo. L’evento è incluso nel programma cittadino della commemorazione dei cento anni dalla Prima guerra mondiale. Ars Aevi sorgerà tra il Museo Nazionale Archeologico ed Etnografico, di epoca austroungarica, e il Museo della Storia, un tempo Museo della Rivoluzione.
A Venezia abbiamo anche presentato un altro progetto: Arte del mondo a Sarajevo. Alcuni degli artisti in collezione creeranno installazioni permanenti all’interno e all’esterno di alcuni edifici pubblici della città. Nel 2014 sarà riallestita la mostra di Jannis Kounellis, presentata nel 2004 nella fatiscente Biblioteca Nazionale, oggi giunta all’ultima fase di ristrutturazione. Michelangelo Pistoletto costruirà un grande specchio del Mediterraneo sul soffitto del Museo Archeologico. La Place des drapeaux di Daniel Buren, oggi installata sul terreno destinato al museo di Renzo Piano, resterà all’esterno del futuro parco di Ars Aevi. Il gruppo IRWIN di Lubiana esporrà nel Museo della Storia. L’opera di Braco Dimitrijević andrà nella stazione centrale ferroviaria. E ancora, Dean Jokanovic-Toumin all’aeroporto, Bizhan Bassiri alla Biblioteca Orientale, Remo Salvadori in una fortezza, la Bijela Tabija. Infine, Joseph Kosuth interverrà sulla facciata della Galleria Nazionale d’Arte Moderna.
Oggi in città sono attivi SSCA (Sarajevo Centre for Contemporary Art), Kriterion Art House, che collabora con l’Accademia di Belle Arti, e da due anni si tiene la Biennale di Sarajevo, ospitata nell’ex bunker di Tito a Konjic. Sono previste future attività congiunte con questi centri per l’arte?
Questa è una delle bellezze di Sarajevo: la presenza di movimenti spontanei capaci di organizzarsi. Ma è importante che non si creino centri egemonici che possano occupare posizioni di controllo. Possono esserci diversi flussi creativi che a un certo punto si incontrano. Ars Aevi ha deciso di seguire il percorso già delineato: se il nostro piccolo staff riuscisse a dare un contributo a Sarajevo e alla regione circostante, dovremmo lasciare ampio spazio ad altre forze intellettuali e creative perché si sviluppino in modo autonomo. L’importante è che qualsiasi movimento culturale e artistico sia sincero.
Il progetto è sostenuto, oltre che da centri internazionali per l’arte, anche dai Comuni di Venezia, Roma, Firenze, Milano e dalla Regione Toscana. Crede ci possano essere future collaborazioni di lunga durata con tali istituzioni pubbliche?
Ciò che accadrà sarà un processo naturale: le organizzazioni che hanno fondato la collezione sono i padri della collezione stessa. Ars Aevi è una loro creazione in crescita, che troverà presto casa nella nuova sede espositiva al domani di un percorso ben pianificato di scambi e programmi. Abbiamo ulteriori progetti, ma il tempo è poco ed è difficile ottenere i finanziamenti necessari. Io aspetto. Finora il compito che mi sono posto è stato quello di arrivare all’avvio della costruzione del museo, e durante questo percorso ventennale è stato creato uno splendido gruppo di giovani collaboratori: saranno loro a sviluppare i progetti futuri una volta aperto il museo.
Come pensa che il vostro progetto possa giovare al futuro della città?
In qualità di fondatori, crediamo che Ars Aevi sia un progetto culturale, artistico e di economia dello sviluppo. All’estero percepisco un grande entusiasmo da parte di molte persone che vorrebbero visitare la penisola dei Balcani, ma avverto una persistente mancanza di fiducia verso la nostra regione: perdurano timori di fondo legati alle immagini nere del passato, alle guerre, al primitivismo, all’assedio. Il nostro desiderio è di favorire una nuova percezione di un centro urbano simbolico, storicamente punto d’incontro di culture diverse, per incoraggiare la città a guardare avanti.
E poi è necessario stimolare gli investitori affinché creino una nuova immagine della città e di tutta l’area circostante, perché penso che il nostro progetto possa essere importante anche per i Paesi vicini alla Bosnia-Erzegovina, in relazione al loro sviluppo economico legato alla cultura. Ci sarà un ritorno ben maggiore rispetto alla semplice creazione di un museo: il nostro percorso è nato come espressione della volontà collettiva, e sono certo che Sarajevo avrà un nuovo volto per una rinnovata dignità dei suoi cittadini più giovani. Ars Aevi unisce simbolicamente diversi artisti provenienti da tutto il mondo: grazie all’arte contemporanea, che non fa più parte di alcun dominio, né di alcun impero.
Elio Ticca
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