Grazia è potere. I Paesi dell’ex URSS alla 55. Biennale
Solo otto dei Paesi dell’ex Unione Sovietica partecipano al programma degli eventi in Laguna. Ma dalla pioggia d’oro del padiglione russo alla loggia-kamikaze georgiana, alla collettiva in Ca’ Foscari, ogni percorso svela poteri visionari.
Bielorussia, Kazakhistan, Kirghizistan, Moldova, Tagikistan, Turkmenistan e Uzbekistan non hanno solcato, né partecipato ai percorsi della 55. Biennale. Ma i restanti otto Paesi dell’ex URSS, durante l’edizione 2013, hanno creato una rete di presenze artistico-culturali che hanno calibrato propulsione estetica e raffinatezza progettuale, attitudini degne di nota. Russia, Ucraina, Armenia, Azerbaijan, Estonia, Georgia, Lituania e Lettonia si sono distinti per un’esattezza esecutiva che ha potuto dar vita a metafore visuali disparate, ieratiche e intuitive. In ciascuno dei percorsi espositivi proposti da questi Paesi, la grazia del pensiero ha rivolto silenziosi attacchi al potere e nostalgici sguardi alle proprie radici, figurati e non.
Solo tre Paesi dell’ex Unione Sovietica hanno aderito agli itinerari ufficiali di Giardini e Arsenale: Padiglione Russia, Padiglione Lettonia e il kamikaze Padiglione Georgia. Ai giardini, il Padiglione Russia cambia volto e, finalmente, si riempie di spazio. Vadim Zakharov mette in comunicazione il primo e il secondo piano dell’edificio attraverso due fori che permettono discesa e risalita di una pioggia di monete d’oro (Danaë). L’installazione simula l’abuso di potere divino nei confronti del corpo virginale della Russia, in attesa del proprio nuovo Perseo. Attraverso la mitica leggenda sulla metamorfosi concupiscente di Zeus, l’artista rappresenta il benessere corrotto ed effimero della propria madre-patria, in ginocchio nel guardare con incanto le cascatelle di monete discendere nella grotta – per sole donne – situata a piano terra. Progetto realizzato grazie a personale impeccabile e a un sistema di canali meccanizzati, esterni all’edificio.
All’Arsenale, il Padiglione Lettonia, posto proprio accanto al Padiglione IILA, sparge profumi dalle note di terra, di abete fresco e mostra, alle pareti, lightbox in bianco e nero, ritratti statici e dinamici di contadini che fluttuano sulle loro terre. Con North by Northeast i giovani Krišs Salmanis e Kaspars Podnieks mettono in mostra la labile identità delle loro origini, della loro terra e delle sue radici geopolitiche. Al centro del padiglione, un enorme abete nero, appeso a testa in giù, fende l’aria come una lama, mosso da un meccanismo di carrucole installato a soffitto. Mentre i contadini ritratti da Podnieks si lasciano guardare alle pareti, senza auto-rappresentazione, senza trovar posa, né la certezza di poter solcare il terreno uguale; così come si trova sotto la neve e sotto i loro occhi.
Proprio di fronte alla Torre di Porta Nuova, invece, il Padiglione Georgia mette in mostra il progetto più avventuroso delle Corderie: la Kamikaze-loggia. La collettiva di artisti (Bouillon Group, Thea Djordjadze, Nikoloz Lutidze, Gela Patashuri con Ei Arakawa e Sergei Tcherepnin, Gio Sumbadze) prende spunto dalla costruzione dalla sovra-architettura istintiva e parassitica che la contiene, per rifiutare ogni forma di struttura dominante. Nonostante la ripida scalinata per accedervi, lo spazio ricavato è un continuo rimpasto di storie familiari e intuizioni ironiche, come il video (corredato da performance giornaliere) dei Bouillon Group, Religious aerobics, riposta alla nascita del fondamentalismo religioso nel Caucaso dopo il collasso del sistema sovietico. Gli artisti fondono i gesti rituali delle tre più importanti religioni in Georgia (cristianesimo, islamismo ed ebraismo), con coreografie dei programmi televisivi di aerobica, proponendo ripetizioni automatiche similari, movimenti che diventano, con il trascorrere del tempo, puri non-sense.
Per quanto riguarda le partecipazioni nazionali, la Repubblica dell’Armenia propone, come da tradizione, all’interno del Monastero nella magnifica enclave dell’Isola di San Lazzaro, la personale di Ararat Sarkissian, dal titolo The Tale of David the Lad and Khandut the Lass unfolds. Una mostra che cesella vecchie leggende armene astratte, agite e, infine, impresse all’interno di superfici materiche, come la ceramica. Di maggiore impatto (soprattutto se visitato prima dell’installazione di Stingel a Palazzo Grassi) Ornamentation, progetto allestito a qualche passo di distanza da Campo Santo Stefano, in rappresentanza della cultura elitaria della Repubblica dell’Azerbaijan. Ricordando in parte l’opera dell’artista Fahrad Moshiri, all’Arsenale Nord (Love me, Love me not), sui due piani di Palazzo Lezze, la collettiva composta sei artisti (Rashad Alakbarov, Fakhriyya Mammadova, Chingiz, Sanan Aleskerov, Bunutay Hagverdiyev e Farid Rasulov) si muove attraverso le forme domestiche conferite ai tradizionali dei Kilim, i ritratti di Bakum, fotografie e luci dai segni orientali. Al piano terra del portone accanto, sempre in Campo Santo Stefano, ma al 2945, presso l’Istituto Veneto di Scienze, Lettere e Arti, l’Ucraina presenta una piccola, tripla personale che stupisce per intensità. The Monument to a Monument riprende le diverse fasi di smantellamento di una stele innalzata ai Soviet nella città di Kharkiv. Tanto Ridnyi che Zinkovskyi che la Kadyrova si concentrano sulla registrazione del cancellamento di tracce passate, dando il benvenuto al visitatore con un’installazione prospettica che risplende come una perfetta dichiarazione di poetica.
A poche centinaia di metri, a Palazzo Malipiero, le stanze dedicate alla presenza dell’Estonia regalano tra le più fresche e delicate personali di tutta la 55. Biennale. Dénes Farkas, curato da Adam Budak, allestisce diverse isole installative di grandi dimensioni sul tema della prova anticipata, Evidence in Advance. Farkas, interessato alla elusività di ogni messaggio, se affidato a qualsiasi complessità linguistica, organizza il proprio percorso veneziano scomponendo e rappresentando alcune parti del romanzo di Bruce Duffy, The World As I Found It (1987). Nel complesso, l’iter ordinatissimo e caratterizzato da continue demarcazioni dell’assenza regala la sensazione di una chiara comprensione del mondo, oltre la realtà esistente.
La Lituania, invece, propone la propria selezione di artisti (Liudvikas Buklys, Gintaras Didžiapetris, Jason Dodge, Lia Haraki, Maria Hassabi, Phanos Kyriacou, Myriam Lefkowitz, Gabriel Lester, Elena Narbutaitė, Morten Norbye Halvorsen, Algirdas Šeškus, Dexter Sinister, Constantinos Taliotis, Kazys Varnelis, Natalie Yiaxi, Vytautė Žilinskaitė) nel cosiddetto Palasport Arsenale, in calle San Biagio, allestendo una collettiva (assieme a Cipro) dal titolo oO. Come una sequenza numerica, dall’identità impazzita, artisti ciprioti e lituani intersecano i loro set, animandoli con interventi e performance, fra pareti di vero cemento armato.
Per quanto riguarda, infine, le mostre di artisti appartenenti all’ex Urss, itinerari che rientrano nel circuito degli eventi della Biennale 2013, è consigliato spingersi nel secondo cortile di Ca’ Foscari e visitare Lost in translation, una collettiva di artisti russi degli ultimi quarant’anni (alcuni peraltro già ospitati nel 2012 in Laguna, alla Casa dei Tre Oci) e curata dal MMOMA – Moscow Museum of Modern Art. Il percorso, grazie anche alle ampie didascalie e a una metodica espositiva da ricordare, offre una buona panoramica di artisti russi affermati e non. A proposito di Casa dei Tre Oci, in Giudecca, la Fondazione moscovita VAC pone in dialogo Pawel Althamer e Anatoly Osmolovsky attraverso Parallel Convergernces. Uno sguardo che per la prima volta associa i due artisti, l’uno nato a Varsavia nel 1967 e l’altro a Mosca nel 1969, intellettuali che hanno subito il passaggio decisivo dal comunismo al post-comunismo, vivendo in Russia all’epoca del blocco orientale nei primi Anni Novanta. Dirimpetto, sulla riva delle Fondamenta delle Zattere, al 417, nuovamente organizzata dal MMOMA, la personale di Bart Dorsa, dal titolo Katya, conchiude il circolo delle presenze ex Urss a Venezia. L’artista, nel buio più completo, presenta una mostra di lastre fotografiche di collodio e vetro argentato assieme ad alcune sculture in bronzo. La mostra racconta il corpo e la storia, una ragazza russa, Katya appunto, scoperta a Mosca dall’artista americano, sempre concentrato sulla vita vista come un intricato crocevia.
Ginevra Bria
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