Il potere all’immaginazione. Del Montenegro
Alla Biennale di Venezia, il Montenegro è rappresentato da un progetto di Irena Lagator Pejović. Per riflettere sulle potenzialità di una società a responsabilità illimitata. La seconda intervista ai protagonisti dei padiglioni dei Paesi balcanici.
Il Montenegro si è presentato alla Biennale di Venezia con un progetto di Irena Lagator Pejović, classe 1976. Ospitata tra gli storici spazi di Palazzo Malipiero, l’artista ha installato un vero e proprio percorso modulare intitolato Image Think, composto da quattro opere che si inseriscono in una ricerca che sta svolgendo da anni sull’analisi dell’arte come strategia sociale. Con l’obiettivo di riflettere sulle potenzialità della cosiddetta responsabilità illimitata degli individui.
Puoi presentarci il progetto Image Think? Com’è nato?
Il progetto nasce come esperienza dei miei primi dieci anni di lavoro durante i quali ho portato avanti un’idea di possibile esistenza della società a responsabilità illimitata e, quindi, offrire una poetica trasformazione della realtà. Questa ricerca si basa sull’analisi del sistema di funzionamento di varie società del nostro contemporaneo. Uno tra i miei punti di partenza è stato l’analisi del termine internazionale economico, giuridico e commerciale Società a responsabilità limitata (Srl).
E cosa hai scoperto?
L’espressione Società a responsabilità limitata consiste in tre parole chiave, società, responsabilità e limitazione, che, se analizzate al di fuori del contesto economico, possono attivare una serie di riflessioni individuali su moralità, etica e responsabilità, rivelando il paradosso che si può scoprire in questa espressione: possiamo chiamarci “società” se dichiariamo le nostre responsabilità limitate rispetto alla società che può esistere solo se ciascuno di noi si dichiara responsabile nei confronti degli altri? Mi chiedevo: cosa collega queste tre parole? Ma quanto riflettiamo sul vero significato dell’espressione e sulle conseguenze rispetto al significato delle parole società e responsabilità? Mi sono resa conto anche che sempre più spesso la responsabilità intesa come valore immateriale adesso appartiene più al mondo materiale. E se questo è vero, quali influenze susciterà allora una tale responsabilità rispetto agli spazi fisici, sociali ed emotivi? Non si potrebbe dimostrare il significato opposto a quello su cui la sigla pone l’accento: che oggi la moltitudine non agisce entro i limiti, ma con un potenziale illimitato di creatività?
Quali sono le conseguenze di queste ipotesi?
Il significato di questo termine ci orienta verso l’influenza sovversiva che questo esercita sulla capacità della moltitudine, sulle relazioni, sulla produttività, sull’umanità, che e l’opposto degli obiettivi che l’opera d’arte si pone. Le idee di base della mia ricerca, e quindi del progetto Image Think, si fondano sulla necessità di un ripensamento critico permanente della realtà tenendo i temi sociali, economici e antropologici come base per il lavoro interdisciplinare, che sottolineano la disintegrazione e gli eccessi distruttivi della vita contemporanea.
Mi sono, dunque, posta la domanda: visto da una prospettiva più generale, se intendiamo lo spazio e la società come processi relazionali sempre in costruzione, invertendo il termine di limitazione e trasformandolo in un concetto più graduale e generoso di non-limitazione, non siamo noi come una pluralità in grado di visualizzare o almeno verbalizzare, se non produrre, l’idea di una possibile “società a responsabilità illimitata”? E se siamo in grado di farlo, quali conseguenze potremmo essere in grado di co-produrre a livello quotidiano? Non comprenderemmo in maniera differente il significato e la complessità di concetti di responsabilità, soggetto e società della quale saremmo illimitatamente responsabili? Potrebbe essere questo uno dei punti di partenza per creare uno spazio (di emozione e cognizione) infinitamente aperto – intenzione del progetto Image Think – invece di continuare a produrre spazi come semplici contenitori di cose in quanto tali? La responsabilità diventerebbe un attivatore dei sentimenti e i sentimenti attivatori della responsabilità.
È stato necessario quasi un secolo perché il termine S.r.l. funzionasse in tutti gli Stati e in tutte le lingue. Mi chiedo: come si sviluppa il nostro mondo se la responsabilità diventa sempre più limitata e le società sempre meno responsabili? Quanto tempo ci vorrebbe per limitare la limitazione della responsabilità e diventare non limitati in responsabilità? Un secolo di nuovo?
Come si traduce tutta questa riflessione nel progetto espositivo?
Image Think è una sintesi di quattro opere: Attraverso l’oltre, Image Think, Ecce Mundi e Camera Imaginata. Mezzi per lo scambio del potere dell’immaginazione, intervento in catalogo. Ogni lavoro insiste sull’interdisciplinarietà e sull’interazione dello spettatore con l’opera. Si tratta di uno spazio aperto, un percorso fra tre ambienti connessi tra loro. Si entra in una stanza d’oro (golden room), per poi attraversare la seconda stanza nera (black box), per esplorare infine la terza, che è la stanza bianca (white cube). In altre parole, partendo dalla prima stanza dal titolo Attraverso l’oltre, ci rendiamo conto dell’importanza della domanda sull’apprezzamento delle cose nel mondo globalizzato. Questo lavoro, creato dai sottili fini di cotone dorato, torna alla domanda sul dare valore al mondo presente, mondo del consumo e della creazione. Nell’opera successiva, Image Think, che dà il titolo al padiglione, entriamo in uno spazio buio, camminiamo sul pavimento di vetro, dove con il passare del tempo i nostri occhi si adattano alle ridotte condizioni di luce mentre l’immagine di un universo artificiale cresce nella nostra percezione, riflettendosi negli specchi del pavimento insieme all’universo interiore. Siccome il blackboxing significa che non conosciamo gli elementi che costituiscono un oggetto di design, ma abbiamo volontà e capacità di servircene, questo ambiente ci attiva a riflettere sul design del mondo in cui viviamo. Alla fine del percorso ambientale, si arriva a una stanza che – poiché i nostri occhi erano abituati alle condizioni di luce nella stanza nera precedente – pare vuota. E invece scopriamo una drammaturgia della presenza propria nel camminare attraverso il medium dell’opera – sopra la tela del pavimento – che, come anche le altre tele di muri e del soffitto, contiene una moltitudine rotante di minuscoli pittogrammi appena visibili, raffiguranti l’uomo.
Questo spazio aperto può anche essere visitato entrando prima nella stanza bianca, percorrendo poi la stanza nera per terminare infine l’esperienza della visita con la stanza dorata.
Qualunque sia la scelta di visitatore sul percorso, alla fine, grazie all’interazione con l’opera nel catalogo, al visitatore stesso è conferito il ruolo del creatore, la possibilità di decidere sul tempo e il luogo dove desidera terminare l’esperienza del padiglione Image Think.
La tua ricerca riguarda da anni “l’illimitata responsabilità dell’individuo”. In quale misura Image Think si inserisce in queste riflessioni?
Partendo già dal titolo, Image Think, che sembra composto da due parole senza relazione tra loro, così come la responsabilità e la sua illimitatezza sembrano essere separate nel mondo di oggi. Con questa separazione, che è invece un legame, mi interessava attivare la domanda intorno a cosa stiamo dando oggi il primato: alla creazione della rappresentazione del mondo, all‘immagine, o al processo di pensare, alla riflessione su come stiamo creando la realtà condivisa e costruita. In altre parole, l’illimitata responsabilità dell’individuo, un insieme di capacità umane collegate tra loro che oggi sembra siano invece separate, può anche essere definita come una strategia sociale (ispirata dal lavoro di APG – Artist Placement Group negli Anni Sessanta, quando si voleva alterare la percezione dell’artista verso le principali domande sociali dell’epoca).
Secondo la mia opinione, l’arte come strategia sociale si fonda sulla sintesi con l’osservatore secondo le dicotomie materiale e immateriale, responsabilità individuale e collettiva, realtà costruita e la sua ricostruzione poetica. Quale uno tra i tanti elementi nel processo dello sviluppo pensiero-senso, tale sintesi si genera come un costrutto mentale e sensoriale, ma consiste in azioni che generano nuovi atti d’introspezione, reclama la presenza nel mondo, esige di essere sempre presenti e attenti, e di acquisire consapevolezza.
Di conseguenza, l’arte come strategia sociale cerca di attivare la nostra consapevolezza percettiva e cognitiva in merito all’assenza dei limiti nella nostra responsabilità di rispondere in un modo infinitamente aperto, cosicché le nostre risposte abbiano la capacità di generare successive domande.
Che ruolo ha l’arte in questa prospettiva “impegnata”?
Credo che un’opera d’arte sia solo un passo nel processo dell’agire, del pensare o del creare. L’opera d’arte, quindi, non basta, è soltanto l’elemento primario, un passo indispensabile per favorire la continua espansione delle capacità umane. È solo l’inizio – o l’iniziazione – dei processi cognitivi e sensoriali dei quali noi esseri umani siamo dotati. È una parte integrante del processo della creazione. Non è pertanto vero che la società, in questo modo, diventa medium, portatrice stessa d’immagini?
L’arte come strategia sociale si basa sul concetto di responsabilità illimitata, intesa come il bisogno di rispondere continuamente, di limitare la condizione delle responsabilità limitate attraverso la trasformazione poetica del mondo, di rispondere alle sfide della realtà costruita.
Per esempio, per attivare la responsabilità illimitata a livelli diversi, nell’opera e nel progetto Image Think, ho voluto fare un rimando al concetto base della Neolingua orweliana. Così il titolo Image Think, con la forma dell’infinito del verbo pensare, rappresenta per me un tentativo di dimostrare come il potere dell’immaginazione e delle immagini mentali possa sopravvivere alle degenerazioni del linguaggio (o, estendendo il concetto, di qualsiasi tipo di regime totalitario). Dato che la parola infinitus in latino rappresenta qualcosa senza limite o fine, qualcosa di impossibile da misurare, mi chiedo pertanto se l’adozione della forma dell’infinito “think” possa evocare l’idea della responsabilità illimitata del pensiero in rapporto alla questione dell’immagine ma anche in rapporto al processo di creazione. Se una simile scelta fosse in grado di sostenere il processo del pensiero nel continuare verso l’infinito, allora dovrebbe anche essere in grado di estendere le nostre responsabilità alla non finitezza del pensiero.
Se pensiamo attraverso le immagini, possiamo permetterci di dare una stima anticipata del valore dei soggetti a cui pensiamo. Se pensiamo attraverso le immagini, le nostre responsabilità personali e collettive si moltiplicano.
Nella prima opera, Attraverso l’oltre, i tetraedri dorati che esistono in rapporto alla luce e al movimento dei visitatori nello spazio, scompaiono oppure sembrano scomparire quando il visitatore sceglie di guardare direttamente la luce, mentre l’immaterialità dell’aspetto d’orato del materiale sembra l’unica visualizzazione che riempie lo spazio. Il visitatore, quale medium vivente, deve percepirsi come componente primaria dello spazio, cosicché il processo dell’arte come strategia sociale possa continuare nella sua mente e nel suo spettro sensoriale. Questo è il motivo per cui la sola opera d’arte non può bastare: il visitatore deve “entrare dentro”, partecipare, l’opera attiva il suo spettro sensoriale, perché, come dice Hans Belting, in realtà non è il medium ma lo spettatore che genera l’immagine dentro al suo essere.
Un altro esempio della relazione di Image Think e la responsabilità illimitata si scopre nella terza opera, Ecce Mundi, dove l’umanità e l’homo non sono più dominati da poteri distruttivi ma dal loro opposto, convivendo in una società in cui le persone si identificano con il loro senso della responsabilità. Sebbene collegati uno all’altro, nondimeno sono isolati. Il processo di condivisione del sapere è ancora in corso, la loro evoluzione nietzscheana non è ancora completa. Ciascuno di loro pensa in rapporto a un’umanità che manca di un centro definito. In questo tipo di società e nel senso sloterdijkeiano, la fascinazione che un essere umano esercita sull’altro è continuativa. Questi mondi disegnati a mano, che organizzano visivamente lo spazio tridimensionale, sono esposti al giudizio dei visitatori i quali possono camminare sopra le tele, catturati, pertanto, in una situazione spaziale in cui una società si può costruire piuttosto che decostruire. È la drammaturgia della presenza, rivelata dall’atto di camminare sopra le tele, che a sua volta palesa come si diventa ciò che siamo. L’azione di attraversare l’opera d’arte continuando a calpestarla, rappresenta la scelta e la responsabilità del visitatore.
A conclusione del percorso, e attraverso l’opera in catalogo, Camera Imaginata. Mezzi per lo scambio del potere dell’immaginazione, si dona, a chi lo vorrà costruire attraverso il ritaglio, un ideale luogo poetico. È responsabilità di ciascuno di costruire l’oggetto dal disegno, o in altre parole, di costruire la realtà propria e comune in misura di dimostrare, o al meno scoprire, la propria responsabilità illimitata.
Come definiresti l’esperienza di progettare un lavoro composto come percorso modulare? Quali sono state le difficoltà maggiori?
Il percorso modulare e ambientale mi interessa per la sua molteplice relazione con le questioni di presenza, spazio e tempo, con l’esperienza fisica e temporale del lavoro che instaura rapporti necessari di ambivalenza del medium, capace di attivare il pensiero, l’esplorazione, e curiosità nel visitatore. Questo processo si potrebbe definire anche come una relazione o un’esperienza di co-produzione, nel senso che non sono soltanto gli artisti a creare spazio-tempo nelle opere o nei percorsi modulari, ma è innanzitutto spazio-tempo stesso che crea noi, un individuo, un artista, una società.
Le specificità della città di Venezia hanno influito sulla progettazione di Image Think?
Lo studio delle specificità, della pulsazione e della storia di un luogo o di una città in cui presento un progetto è un processo sempre iniziale al mio processo creativo. Image Think instaura una relazione con il ricco patrimonio artistico e storico di Venezia, soprattutto nel primo ambiente del lavoro, Further than Beyond, nel quale l’attivazione della domanda sull’apprezzamento nel mondo odierno è stato pensato anche per il contesto veneziano, dove la questione del valore sembra essere parte del linguaggio visivo e contesto urbano della città.
La riflessione sull’opera d’arte come elemento primo dell’esistenza attiva ci porta a un’altra domanda. Quale rapporto può (o deve) legare l’arte alla politica intesa come amministrazione della società?
Mi sembra che i rapporti di empatia e il rapporto interdisciplinare sono alcune delle relazioni tra arte e politica cariche di potenzialità per entrambi, arte e politica, che partecipano così a una circolazione di contenuti chiave per una possibile ricostruzione poetica della realtà. Credo che l’opera d’arte possa attivare il processo della liberazione della parola e sostenere la forza dell’immaginazione e, dall’altro lato, che la politica intesa come amministrazione della società può guardare all’arte soprattutto per come implementare riforme poetiche delle sue strutture. Per esempio, il dono dell’empatia, che nel mondo di oggi sembra essere stato dimenticato, è un rapporto cruciale in quanto simile alla modalità in cui il soggetto della fenomenologia si relaziona agli oggetti nel mondo, attraverso un approccio nei confronti degli altri e a se stesso come un altro; arte e politica, dunque, possono essere legate da un rapporto reciproco. Credo, quindi, che un rapporto fenomenologico sia necessario per legare arte e politica in un modo che consideri il soggetto comune, quello dell’altro. Ma questo tipo di rapporto richiede l´interesse o il desiderio per un’umanità responsabile che riconosca l’autonomia della creatività del pensiero o del giudizio. Making things public (per citare e richiamare anche il titolo e l’idea di un’importante mostra di Weibel e Latour allo ZKM nel 2005) e, io aggiungerrei, making responsibilities common potrebbero essere i rapporti della mutuale fluttuazione di arte e politica.
Quali sono i tuoi programmi per il futuro?
Una delle miei grandi motivazioni per lavoro, a parte la pratica artistica indipendente, è l’organizzazione chiamata PLURAL – PLatform for URban ALternatives, creata da me e dall’architetto Andjelka Badnjar questo stesso anno. Il nostro obiettivo è esplorare le potenzialità della ridefinizione e dell’uso dello spazio tramite varie problematiche della città e i temi dell’ecologia, dell’energia, dello sviluppo sostenibile e ovviamente della cultura.
Filippo Lorenzin
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