Jeans Symphony Orchestra. La regola dell’eccezione
Primo: disfarsi all'abito scuro da concerto. Secondo: indossare jeans e camicie colorate. Terzo: creare coreografie luminose, a seconda del movimento di una sinfonia. Quarto: consentire al direttore d’orchestra di spiegare al pubblico scelte e caratteri, prima di ogni movimento. Sono le quattro regole condivise e rispettate dal progetto “Revolution!”.
Il progetto Revolution! ha preso avvio a partire dal giovane direttore svizzero-belga (classe 1978), nonché milanese d’adozione, Matthieu Mantanus. Il 20 giugno 2013, all’Elfo Puccini di Milano, sotto la sua direzione ha debuttato la Jeans Symphony Orchestra. La Terza Sinfonia op. 55 Eroica e l’ouverture dall’Egmont sono state eseguite da trentacinque elementi di tradizione accademica, compresi tra i 20 e i 40 anni di età, pronti a mostrare una nuova interpretazione, una nuova visione della musica colta. Beethoven in primis.
Com’è nato Revolution! e, in breve, come si sta sviluppando il progetto? In quanto tempo hai selezionato i componenti della Jeans Symphony Orchestra?
Lo spettacolo Revolution! è il punto di arrivo di una lunghissima riflessione, frutto di tante esperienze vissute negli ultimi quindici anni di attività direttoriale in Italia e all’estero. Mi sono accorto che la reale fruizione dello stesso contenuto che veicolavo era direttamente proporzionale alla libertà di espressione di cui godevo: bassa in contesti classici, molta fuori dagli schemi, informali, dove mi era richiesto di parlare e spiegare quello che facevo. La Jeans Symphony Orchestra è lo strumento di questa mia piccola rivoluzione: un’orchestra nuova, di livello, che per ora abbiamo selezionato in circa un mese fra gli strumentisti che conoscevamo e di cui eravamo certi, innanzitutto, della loro preparazione artistica. Componenti che ovviamente condividevano queste nuove modalità di presentazione dell’orchestra.
Come, a tuo parere, la scelta di rifiutare alcuni formalismi permette un’esecuzione differente, seppur di alto livello?
L’esecuzione non è differente. È la sua percezione da parte del pubblico a esserlo. Se, prima di suonarla, descrivo la musica con le mie parole, i suoi intenti, i suoi momenti rilevanti, io dò a chi la ascolta un mezzo per seguirla, capirla e apprezzarla. Il risultato è incredibile: la musica più ostica diventa entusiasmante e arriva dritto al cuore delle persone che escono dal concerto con “qualcosa” in più. Ma attenzione: niente lezioni di storia della musica! Non mischiamo le cose: qui stiamo facendo spettacolo, per quanto profondo e complesso. È uno dei malintesi che uccidono la classica, cioè l’istruire per ascoltare, invece di far ascoltare per istruire.
Cosa significa per voi vestire in jeans e, in base alla tua esperienza, quale messaggio ha recepito il pubblico?
La forma è parte integrante del contenuto. Il frac, tanto per fare un esempio, è un simbolo chiaro per il pubblico di oggi. Vestito splendido e desueto, identificato a una certa mondanità aristocratica molto colta dell’inizio del secolo scorso, quasi al bianco e nero. Un po’ Morte a Venezia, per intenderci. È quella l’immagine che vogliamo dare come artisti? Io ho trentacinque anni, vivo con il mio palmare e programmo al computer. Vivo completamente, e felicemente, nel XXI secolo: il frac non è un abito che mi rappresenta, né tanto meno rappresenta la violenza, l’irruenza di un anticonformista come Beethoven. Allora perché indossarlo per suonare? Significa un po’ rivendicare l’altezzosa nobiltà della nostra arte, incutere, a prescindere, timore reverenziale. È a mio avviso una mancanza di fiducia nella nostra capacità, e quella della musica che suoniamo, di interessare chi ci guarda e ascolta.
In merito al vostro recente concerto all’Elfo, a Milano, quale motivazione ti ha spinto a scegliere con la Terza Sinfonia op. 55 Eroica e l’ouverture dall’Egmont?
Per la mia piccola rivoluzione stilistica, quale migliora tematica che la Rivoluzione? A cominciare da quella francese, madre delle rivoluzioni europee. Abbiamo parlato dei soprusi, degli ideali, della violenza e della morte, degli eroi e infine del ritorno dei soprusi, punto di partenza e di arrivo del ciclo rivoluzionario. La rivoluzione è una tematica attuale, così come la musica di Beethoven.
La Jeans Symphony Orchestra spezza la barriera tra palco e pubblico, rifiuta ogni divisa e inserisce coreografie luminose durante l’esecuzione di brani classici. Dunque il pubblico, in quale misura, deve venirvi a vedere e in quale altra venirvi ad ascoltare?
Oggi viviamo in una società multimediale. Questo significa che siamo abituati ancora più di prima a legare i nostri sensi. Mi aspetto che il pubblico venga ad assistere a un vero e proprio spettacolo, da guardare e ascoltare. E, perché no, magari anche da assaporare!
Prossimi spettacoli o progetti?
Stiamo esplorando le possibilità di portare Revolution! in altre città italiane ed europee, cercando sostegni e fondi. Poi ci lanceremo nella produzione del prossimo spettacolo del quale però non svelerò nulla!
In quale misura le scuole italiane di formazione, come Fiesole, Chigiana, Lirico Sperimentale aiutano i giovani direttori d’orchestra nell’avvio della loro carriera?
Assolutamente nessuno. Li formano, a volte anche molto bene. Ma l’avvio di una carriera direttoriale è un fattore strettamente personale, di relazioni e contatti. Le scuole contano poco o niente.
A tuo parere, l’arrivo di nuove bacchette, oltre a te, Mariotti, Battistoni e altri, sta cambiando la scena musicale italiana? E, in caso affermativo, in quale direzione si sta spingendo (anche a livello di nuovi commistione di generi)?
Non credo che un cambio generazionale faccia per forza evolvere una scena musicale. Più che l’età, contano i progetti. Si può essere giovani e seguire una strada classica, oppure anziani e lanciare idee assolutamente innovative.
Potresti rivelarci un ricordo dei tuoi maestri, specialmente Aprea e Sinopoli?
Entrambi sono stati molto importanti, così come Lorin Maazel in questi ultimi anni. Sinopoli per esempio mi insegnò a differenziare la mia figura di direttore da me, personalmente, Matthieu. In effetti, sia quando vieni amato che quando vieni odiato (la musica è molto emozionale), non sei mai tu a esserlo, ma il tuo essere il direttore. Questa consapevolezza, che spesso manca al giovane artista, offre una grande pace che giova molto al lavoro.
Quali sono, o quali sono state, le barriere più difficili da superare?
La prima barriera è me stesso. Questo mestiere, come tutti i mestieri artistici, ti confronta moltissimo. “Chi sono”, “cosa voglio/devo esprimere realmente” sono domande che alimentano una dolorosa dialettica quotidiana e, suppongo, infinita. In secondo luogo, direi le barriere di un mondo molto sistemico, com’è il nostro, che sono per un “outsider” come me molto difficili da superare. Ma nulla è impossibile!
Ginevra Bria
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati