Premio Termoli. Parola a fondatore e critico
Per i novant’anni compiuti dal suo fondatore Achille Pace, il Premio Termoli chiama il critico storico Francesco Gallo Mazzeo. Un tuffo nel passato per rileggere il presente. Il titolo “PlusUltra” ne racchiude il senso: andare oltre senza dimenticare la tradizione. La parola ai due protagonisti della 58esima edizione.
La sua scelta curatoriale per questa edizione del premio ha voluto creare un dialogo tra diverse generazioni. Sono presenti sia artisti storici, molti nati negli Anni Quaranta, sia giovanissimi. Qual è la motivazione alla base di questa scelta?
Francesco Gallo Mazzeo: Il dialogo è nei fatti, il dialogo è nelle cose. Ho scritto una piccola epigrafe nel libro delle firme: “Chi non ha maestro non diventa maestro”, cioè la grande tradizione fonda l’innovazione. La condizione diversa dell’arte italiana rispetto all’arte europea e mondiale è che noi abbiamo una grande tradizione che è quella del disegno, della pittura, del design, dell’artigianalità, tutte quelle cose che hanno fatto la civiltà italiana. Certo tutto questo non è una garanzia in sé della nostra vivacità attuale, ma è una condizione. Quando nel ’51 è nata la grande moda italiana, Giovanni Battista Giorgini disse a Jole Veneziani: “Andate nei musei, andate a vedere come vestivano ai tempi di Maria e Caterina de’ Medici e ispiratevi”. In questo senso, per me il giovanilismo e lo storicismo non hanno senso.
Quando qualcuno mi chiede: sei uno storico o un critico? È una domanda stupida perché non ci può essere vera critica d’arte che non abbia una fondazione storica e non ci può essere una storia dell’arte che non sia critica, perché altrimenti sarebbe come una sorta di filosofia da poveri e l’altra una narrazione senza concetto. Io mi sono sempre manifestato come critico eclettico nel senso che lei in questa mostra può vedere Mark Kostabi e può vedere anche un artista astratto. Il critico deve essere lettore della fenomenologia, non deve essere un poeta che si schiera poeticamente. Io non sono un critico militante, sono un critico che ha avuto maestri che gli hanno insegnato a guardare e a saper guardare.
Allora ecco io guardo nella diversità e colgo questo PlusUltra, in senso metaforico per dire che si può andare oltre perché PlusUltra fu la grande invenzione di Cristoforo Colombo: le Colonne d’Ercole dicevano “Non plus ultra” e Colombo disse: no Plus Ultra! Allora la mia idea è fondare l’innovazione sulla tradizione, ma in fondo non è neanche una novità. Quando gli italiani del Trecento si posero il problema di ridare alla civiltà italiana una grande cultura avevano due cose da poter vedere: uno era il cosiddetto vecchio di Costantinopoli, l’altro era il nuovo di Parigi. A cosa si rivolsero? Agli antichi, cioè né il vecchio né il nuovo, l’antico. Giotto fondò sull’antico della grande storia italiana delle pagine fondamentali per l’immaginario umano.
Approfitto della presenza di Kostabi per chiederle se la pittura è un linguaggio anacronistico oppure ancora attuale e in grado di rispondere ai tempi…
F.G.M.: Tutto è anacronistico e tutto è diacronico. Voglio ritornare alla mia distinzione fra storia e critica: tutto è apparizione nel senso che l’artista, il creativo fa nascere un’immagine che prima non c’era, ma è chiaro che tutto questo non avviene come apparizione dal nulla, avviene come punto di rottura di un linguaggio storico che è il disegno, la pittura. Per me la pittura è più attuale che mai, ma più che mai lo è la manualità, più che attuale che mai l’uomo, più che attuale che mai la donna, più che attuale che mai l’antropologia umana. Di fronte all’immensità del sublime, l’esigenza di dover fare un piccolo manufatto umano, cosa vuole che sia davanti alla immensa armonia del sublime questo piccolo manufatto, eppure è quello il nostro destino, la nostra risposta di individui, di persone umane. In questo senso la pittura e tutto ciò che risponde al gesto creativo è più attuale che mai.
Il tema è il rapporto dell’arte con la luce: non a caso ha scelto come immagine emblema del Premio un’opera di Maurizio Mochetti.
F.G.M.: L’arte è opera di luce, senza la luce non ci sarebbero i colori, le forme, il senso del valore plastico, del valore tattile e del valore viscerale e sarebbe solo un valore olfattivo e auditivo. Cioè l’arte visiva è per eccellenza collaborazione tra il vedere e il fare, quindi la luce è fondamentale anche quando l’artista la nega. Pensiamo alla grande tradizione di El Greco, che creò questa coloristica assolutamente nuova come quella di Mark Kostabi. Esiste quel colore nella realtà? No, è una sua invenzione, è nella sua testa. El Greco faceva addirittura un’operazione tecnico-maieutica: stava per giorni e giorni in una stanza chiusa con le mani pressate sugli occhi. Se tu pressi le mani sugli occhi fortemente, escono fuori dei viola, dei blu. Quei viola e quei blu noi li vediamo nel El Entierro del conde de Orgaz e Nella veduta di Toledo ed è la nascita della modernità. La modernità viene appunto da una parola, dalla lettera M presa dall’alfabeto egizio. Rappresentava una fontana con due cadute ed era il segno della nascita continua. Infatti il secondo segno del nome dei grandi Faraoni era la M, Ramsete figlio di Ra, figlio del sole Thutmosis figlio di Thut inventore della scrittura. Noi l’abbiamo mutuata nell’alfabeto latino come modus “che cambia”. Modus è la radice di modernità e quindi l’età del continuo cambiamento. Un cambiamento che deve innestare la discontinuità del nuovo nella continuità della storia.
Cosa significa per lei essere ritornato al Premio Termoli, avendo già curato altre edizioni tra gli Anni Ottanta e Novanta?
F.G.M.: Sì, ho curato cinque edizioni. Per me è una grande gioia, perché oltretutto si riconnette a un rinnovato incontro affettivo con Achille Pace, creatore del Premio Termoli, il grande assertore di questa che è un’edizione storica innovativa e una collezione permanente perché io ritengo che il rinnovarsi abbia bisogno poi dei punti di stabilità che creano pedagogia, cultura, che fanno vedere che cosa del passato è avvenuto e come è avvenuto. C’è una bellissima collezione permanente che si innesta con il rinnovarsi delle edizioni del premio e io credo che sia questo l’aspetto più importante. Ci sono venti opere di Achille Pace che sono la prefigurazione di quella che sarà la grande mostra antologica del 90esimo anno dalla sua nascita. Sarà la scrittura di una pagina di storia di uno dei grandi maestri del Novecento.
Achille Pace, perché per la sua vita da artista e fondatore del premio è stato così importante l’incontro con Giulio Carlo Argan e Palma Bucarelli, direttrice storica della GNAM di Roma?
Achille Pace: Vede, io ho conosciuto Argan negli anni ’58-’59, sono entrato subito in una certa confidenza e in rapporto di stima con lui: era un uomo che amava molto la cultura. In quel momento c’erano molti problemi, si era a ridosso della guerra appena finita. La guerra aveva portato cose orribili, se ne parlava con Argan e Palma Bucarelli. La Bucarelli in quei giorni aveva organizzato una grande mostra alla GNAM. Allora pensavamo che tutta la cultura cartesiana desse ragione alla logica, ma la logica può essere anche aberrante, e allora si pensò di aderire a tutto quel pensiero fenomenologico che fin dalla fine dell’Ottocento Husserl aveva messo in evidenza. Io in maniera particolare l’ho tradotto in termini di segni. A questo Argan era molto interessato, come anche la Bucarelli, che volle alcune mie opere per la Galleria. Argan ha dato un contributo di chiarezza, questa chiarezza era la coscienza.
Dall’America arrivava una critica all’Europa. Questa critica giunse in Italia. In America nacque l’Informale. Che cos’è l’Informale? È la caduta. La caduta indica la coscienza delle cose, del destino umano. Il destino umano va amato, la coscienza va rispettata. Questo non è accaduto, è accaduto tutto l’inverso.
Le prime mostre le ho fatte con Argan e con la Bucarelli. Argan diceva di superare l’Informale, non deve rimanere solo caduta, ci vuole il pensiero, la coscienza matura! Allora tutti quanti ci pensammo e nacque il Gruppo Uno nel 1960 a Termoli. Un movimento storico. Argan ha avuto fiducia in me. Mi disse: “Perché non forma un gruppo? Ci sono due giovani per il premio, vada a parlargli”. Argan e Bucarelli, erano nella commissione per il premio. Dissi che ero d’accordo e così nacque il Gruppo Uno.
Negli Anni Sessanta sorsero numerosi gruppi, la dimensione collettiva della ricerca artistica era molto forte. Cosa pensa della situazione attuale?
A.P.: La parola d’ordine nostra, di Argan, della Bucarelli, fu quella di superamento dell’Informale attraverso la costruzione di un pensiero su una testimonianza, sulla fatalità.
Dobbiamo prendere coscienza di essere. Il problema della coscienza potrebbe riguardare oggi il problema della povertà e del non lavoro. Quei pensieri di cinquant’anni fa potrebbero essere validi, ma non ne parlano. Parlare di coscienza in una società capitalistica sembra assurdo, eppure siamo di fronte a grandi rischi. Noi non siamo veggenti, noi siamo persone capaci di guardare all’umanità. Vorremmo dare un contributo di pensiero e di coscienza, motivi per cui nacque l’Informale.
Durante i dibattiti a Roma in via del Babuino presso Editalia, non tutti sanno, mentre Argan era presidente, tra i presenti c’era Bruno Zevi. Il discorso nacque proprio sull’Informale e Bruno Zevi chiese: ma tutto questo discorso sull’Informale vale anche per noi? Argan rispose no purtroppo no, perché voi siete razionali e avete il progetto. Ecco il problema: il progetto e l’informe e l’informe è diventato antagonista, ma non è così…
Recentemente la critica ha letto il suo lavoro come anticipazione dell’Arte Povera riferendosi alla sua Poetica del filo…
A.P.: Io sono nato con la coscienza della povertà. La coscienza, l’umanità, fanno nascere il senso della povertà come animo. Io ho sempre insegnato, non è stata una mia condizione la povertà. Mi ricordo di aver detto ad Argan: io adopero il filo, pezzi di stoffa e basta. Poi all’epoca utilizzavo anche la terra, non volevo dare dimostrazione, sfoggio… Sono stato tra i primi a servirmi di questi materiali. Però dopo è accaduto che l’Arte Povera è caduta in mano ai mercanti, allora si cade in una contraddizione incredibile. Una contraddizione con il termine: non è Arte Povera, è arte per i ricchi. Noi nasciamo nel mondo delle contraddizioni c’è chi ne ha coscienza e ne fa distinguo.
Antonella Palladino
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