Architettura nuda #7. Sara Marini
In questa uscita della serie di interventi dedicati all’“architettura nuda”, Sara Marini indaga quel terreno che si interpone fra architettura e arte, in cui le relazioni tra l’opera e chi ne fruisce si prestano sempre più a molteplici interpretazioni. Nel caso specifico, oscillanti tra la nudità vera e propria e la nuda vita.
Casta Diva, che inargenti
Queste sacre antiche piante,
A noi volgi il bel sembiante,
Senza nube e senza vel.
Norma, Atto I
Il nudo definisce una condizione assediata da una miriade di sguardi e posizioni “culturali”, una condizione allo stesso tempo molto chiara: il corpo è senza vestiti. Un primo atto è l’esplorazione del senso di nudità dell’architettura attraverso i possibili atteggiamenti con cui viene osservata, un secondo passaggio insiste sull’affermazione “l’abito non fa il monaco”. In conclusione, architettura e nudo s’incontrano nello spazio che, disoccupato, cede la scena alla vita e ai suoi mode d’emploi.
Atto I. L’esibizionista, il voyeur e il normale
Quando un’architettura mette in mostra se stessa, assume identità per differenza dal contesto, dichiara forme, linguaggi o dimensioni spettacolari, l’osservatore è posto di fronte a un’esibizione o a un esibizionista. L’impermeabile si apre improvvisamente, il corpo è ostentato ad affermare un’eccezionalità, che può risiedere anche nella semplice nudità inattesa, a cui deve corrispondere un moto di stupore e meraviglia. L’effetto è istantaneo, poi sopraggiungono i già citati codici culturali che danno ordine e nome alle possibili reazioni: si alzano le spalle, si girano i tacchi sperando di non incorrere più in simili incresciosi episodi o, se la cosa ha divertito, l’evento può pure ripetersi ma con la giusta distanza temporale e fisica.
L’architettura può anche decidere di farsi guardare dal buco della serratura. L’osservatore è immesso nel rito della scoperta progressiva, è tenuto alla giusta distanza, non gli è dato conoscere tutto e subito, gli viene elargito poco e gradualmente: squarci, ammiccanti trasparenze sono concessi maliziosamente o con una castità ricercata. Voyeurismo ed esibizionismo sono accomunati dal valore della prima volta. La concentrazione e la concertazione del visitatore rischiano di esaurirsi nell’iniziatica perlustrazione dell’architettura, dove tutto si svela subito o dove il procedere è rituale e imposto.
Una possibile e solida alternativa a questi due atteggiamenti è affermare il corpo nudo collettivo (come nei paesaggi di Spencer Tunick), il suo essere normale e spesso, di conseguenza, codificato. Se le architetture si ripetono in base a un’unica norma – sancita razionalmente, orchestrata sulle posizioni che il corpo perfetto di un uomo può assumere, o fondata su un’idea comune, una messa a nudo dei desideri e delle possibilità – allora il paesaggio uniforme che ne consegue normalizza le diverse forme di nudità. A quel punto però l’osservatore potrebbe eccepire sulla monotonia della scena o divertirsi a cercare le minime differenze tra i corpi in batteria.
Atto II. Corporalia
Cindy Sherman indaga in un’unica opera ossessiva che si rivolge continuamente a se stessa, attraverso autoritratti concettuali, quanto l’abito possa fare il monaco, quanto travestirsi possa affermare e allo stesso tempo mutare continuamente la propria cangiante identità. L’opera della Sherman, oltre a ragionare sul vestito, dichiara ed esplora la grande disponibilità del corpo.
Le fotografie che ritraggono il Michigan Theater di Detroit, nel 1927 teatro e già nel 2005 spazio utilizzato a parcheggio, mettono in mostra non più il valore del velo dell’architettura, il suo temporaneo travestimento – che interessa sia la lingua incisa sui muri che le regole d’uso – ma il persistere dello spazio e la sua disponibilità a essere occupato. Il corpo nudo, spoglio di codici, di regole, che se anche presenti possono aver perso di senso, è disoccupato e così si offre, non tanto alla vista, ma a nuove forme di ospitalità.
Epilogo. Posizioni
Le posizioni dell’osservatore rispetto al nudo possono essere la materia del progetto. Marina Abramovic e Ulay, nudi e anteposti nello spazio di una porta nella performance Imponderabilia, chiedevano, con i loro corpi, una scelta al visitatore. Era possibile passare da una stanza all’altra o dando le spalle all’uomo o alla donna, comunque era necessario prendere una posizione. Diller e Scofidio con Facsimile mettono in mostra la vita: uno schermo applicato su un edificio è preposto a disvelare – più o meno, visto che le immagini sono ritoccate – alla città quello che accade all’interno.
O ancora nella rivisitazione del Palais de Tokyo di Lacaton e Vassal l’architettura è in fieri, senza definizione, si offre come un corpo nudo di cui è dato vedere il funzionamento: il visitatore è chiamato a confrontarsi con la trasformazione continua del corpo, con la precarietà – qui adottata quale linguaggio – non tanto dell’architettura ma della nuda vita.
Sara Marini
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