Expo Chicago ovvero la riconquista del Midwest. Intervista con Cari Sacks
C’era una volta in una terra lontana − il Midwest americano − una fiera d’arte che sovrastava tutte le altre fiere. Il suo regno era come una terra incantata, arrampicato su un molo che dominava il lago Michigan e si estendeva ben oltre. Fino a che, un’assolata mattina d’inverno, un gigante europeo attrasse a Sud i collezionisti locali e internazionali con la promessa di spiagge sabbiose, mojitos e un’abbuffata di arte contemporanea…
Per essere concisi, questa è una delle versioni del declino di Art Chicago, considerata da molti la fiera d’arte più importante degli Stati Uniti tra gli Anni Ottanta e Novanta. Molti accusano Art Basel Miami di questo declino, altri incolpano l’organizzazione stessa della fiera.
Il fatto è che oggi le fiere diventano ogni anno più mondane. Più feste, più liste di invitati, più braccialetti lasciapassare (l’anno scorso ho contato più di quaranta eventi ogni sera durante Art Basel Miami). Per molti, il glamour, la dimensione e la spettacolarità delle fiere hanno raggiunto il loro picco e l’effetto “wow” sta scendendo, e scende con collezionisti di spicco alla ricerca di artisti il cui processo creativo non sia necessariamente dettato dalla ciclicità del calendario fieristico.
Così, in un tempo in cui questa categoria di collezionisti rifugge sempre di più l’onnipresenza transatlantica di Frieze e Art Basel, Expo Chicago, alla sua seconda edizione, vuole recuperare il suo ruolo di fiera del Midwest sulla mappa internazionale. “Fiera boutique”, “programma su misura per i collezionisti”, “grande spazio per il dialogo” sono alcuni degli statement che hanno convinto il pubblico ad andare a vedere la fiera.
Sembra infatti sorprendente, ma nel calendario internazionale c’è spazio per una fiera in più. Expo Chicago può posizionarsi come la prima fiera del Nord dopo la pausa estiva − c’è anche Rio all’inizio di settembre, certamente − dove gli aficionados d’arte possono iniziare la stagione senza trascurare l’abbronzatura durante il jogging sul lago Michigan.
Cari Sacks risponde alla mia telefonata mentre è in macchina. Parla speditamente. La immagino immersa nel suo fare “multitasking” mentre sta correndo da casa a Highland Park, periferia nord di Chicago, verso Union Station, per il progetto di Doug Aitken Station to Station. Il suo caravan d’arte contemporanea è in città con il suo seguito di ospiti artsy e foodsy. “Rincaserò tardi stasera”, mi dice.
Collezionare è un affare molto serio per Cari e il marito Michael, CEO di Grosvenor Capital Management, una delle società di fondi speculativi più importanti al mondo. “All’inizio discutevamo di continuo. Dovevamo accordarci su cosa avremmo esposto in casa, e credo di essere riuscita abbastanza ad averla vinta”. La loro collezione è “molto incentrata sul pop”. La Cruella de Vil “torturatrice” di cuccioli di Keith Haring accoglie gli ospiti all’ingresso della loro casa, nella loro camera invece campeggiano un Great American Nude di Tom Wesselmann e un Flower Mirror di Jeff Koons.
Invece, la collezione fotografica di Michael − “Sai, lui possiede pezzi di Andreas Gursky, Paul Graham, Jeff Wall…” − è stata relegata nel suo ufficio “a Chicago”. E durante la nostra chiacchierata Cari lo fa sembrare quasi come se si trovasse in una terra lontanissima. “È qualcosa che lo affascina e lo assorbe e io vengo solo a vederla”.
“L’arte è sempre stata una commodity. È diventata come possedere un trofeo. Molte persone collezionano arte perché è come collezionare delle Maserati o delle Ferrari. Credo che sia per certi versi un po’ seccante, considerando che questo sistema crea prezzi inaccessibili per molta gente; d’altro canto mi piace vedere un mercato d’arte sano e robusto”.
Negli ultimi venticinque anni, alla stessa velocità con la quale la carriera di Michael schizzava vertiginosamente, i Sacks hanno assemblato un’importante collezione con “l’aiuto” − come Cari graziosamente lo definisce − di dealer locali come Rhona Hoffman e Paul Gray. “Dove acquistate?”, le chiedo. “Per i primi cinque anni andavamo alla fiera di Miami, ma non ci siamo più stati da quando il mondo dell’arte ha iniziato a dare sempre più peso al socializzare piuttosto che all’arte in sé, e questo è un po’ sfiancante. Adesso è come andare a un party gigantesco. E, mi creda, a nessuno piacciono le grandi feste quanto a me, ma se ti vuoi veramente concentrare sull’arte quello non è esattamente il momento più appropriato per poterlo fare”.
Le chiedo dell’Expo di Chicago, la fiera d’arte che inaugura la sua seconda edizione con grandi aspettative. “Qui avevamo una grande fiera. Lo sapeva? Era in autunno, poco prima di dicembre. Poi tutto si è trasferito a Miami e l’abbiamo persa un po’ per quello. È stato parecchio deludente per tutte le gallerie e gli amanti dell’arte di Chicago. Tony Karman − direttore di Expo Chicago − e il suo team stanno facendo un ottimo lavoro nel cercare di ricreare ciò che era un tempo. Quest’anno la fiera sarà molto importante e significativa. Il primo anno è stato un po’ un ‘vieni a vedere e dicci cosa ne pensi’. Quest’anno la gente viene proprio per vedere la mostra. Saranno presenti alcune gallerie straordinarie. Credo che questo potrebbe essere un punto di svolta fondamentale che ci riporterebbe sulla scena artistica in modo decisivo”.
Le chiedo anche di Detroit, la vicina città in bancarotta − 500 chilometri nel Midwest significano praticamente essere a due passi − dove i funzionari governativi hanno chiesto alla casa d’aste Christie’s di valutare la collezione del Detroit Institute of Arts per trovare nuove risorse con cui fronteggiare la crisi. “È triste, ma assolutamente necessario”, risponde. Cari sembra credere nel mito americano della fenice − le Britney Spears, le Lady Gaga − che nasce dalle ceneri. Detroit “ritornerà con i piedi per terra. E una nuova collezione arriverà”.
I Sacks sono grandi filantropi, tanto grandi quanto possono essere le loro donazioni di diversi milioni di dollari, l’ultima alla Northwestern University. Così, le chiedo del futuro della loro collezione. “Mi piacerebbe poter lasciare ai miei figli alcuni pezzi che quando inizieranno a collezionare non potrebbero mai permettersi, se il mercato dell’arte continua ad andare come adesso”. E a proposito del resto, cosa vorrebbe donare? “Regalare la collezione di fotografie a un museo sarebbe fantastico”.
Dopo tutto, Cari ha avuto la meglio su quello che è esposto in casa sua.
Igor Ramírez García-Peralta
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