Il design come filosofia. Intervista a Paola Antonelli
Secondo la rivista “Art Review”, è una delle cento persone più potenti nel mondo dell’arte. Senior Curator del Dipartimento di Architettura e Design e da poco anche Direttore della Ricerca e Sviluppo del MoMA, Paola Antonelli ha la certezza che il design possa migliorare il mondo. Lo dimostra attraverso le mostre che cura - l’ultima è “Applied Design”, fino al 20 gennaio 2014 - e la recente acquisizione di quattordici videogames nella collezione permanente del museo dei musei.
Recentemente sei stata nominata Direttore della Ricerca e Sviluppo del MoMA. Che progetti intendi portare avanti con questa carica?
La carica non si riferisce solo al Dipartimento di Architettura e Design, ma a tutto il museo; riguarda infatti una serie di aspetti relativi al cambiamento culturale in corso, sia fisico che digitale: cosa vuol dire avere mostre, negozi, oggetti d’arte nell’ambito museale digitale e fisico, il ruolo del museo nel progresso e nella società, le nuove metodologie che le persone che si occupano di questi temi devono affrontare.
Recentemente sei stata a Toronto per parlare al Sensorium / HASTAC della York University, con una relazione dal titolo Technology, Science and Design: The New Frontiers, sulle intersezioni tra tecnologia, scienza e design. Nelle lezioni che tieni in tutto il mondo sostiene che il design è uno degli indicatori che getta luce sul grande cambiamento culturale che stiamo vivendo. Puoi dirci di più su questo cambiamento?
Innanzitutto spero che i designer abbiano un ruolo sempre più attivo e importante nella società futura. Credo che siano più filosofi che scienziati: sono gli esperti degli esseri umani e sanno di cosa gli uomini hanno bisogno. Quando c’è un progresso accelerato i designer possono aiutare a vivere meglio e ad usare le nuove tecnologie. Qualche tempo fa leggevo un articolo molto interessante sui digitally born, i bambini nati nell’era digitale. Sono nati con i touch screen in mano, con i gesti istintivi utilizzati nelle interfacce; molti genitori si spaventano perché, in realtà, sono immigranti dell’era digitale, mentre penso che i designer, insieme agli psicologi dell’infanzia, possano aiutare la gente a capire questi cambiamenti. Spero che vengano chiamati molto più spesso a dare il loro apporto nell’educazione e nell’accompagnamento dell’infanzia.
Applied Design è la prosecuzione delle mostre precedenti, Humble Masterpieces (2004) e Design and the elastic Mind (2008), dedicate rispettivamente agli oggetti di uso comune e alle interazioni tra design e scienza, mentre il progetto più recente è Talk to me: design and communication between people and object, che indaga le nuove forme di comunicazione della rivoluzione digitale. Ci parli di Applied Design? Secondo quest’ottica, qual è il prossimo aspetto che intendi approfondire?
Applied Design è una reinstallazione della collezione che facciamo una volta l’anno. L’idea alla base della mostra è che ci sono moltissime forme di design, che non riguarda solo macchine e moda, ma anche design dell’interfaccia, dell’interazione, della visualizzazione. Parlare di design applicato, quindi, vuol dire parlare dello stesso approccio intellettuale che si può applicare a moltissimi campi e scale diversi. Nella mostra ci sono sì esempi di mobili, ma ci sono anche esempi di architetture, di design della visualizzazione, critico, speculativo e sperimentale che non ha applicazioni immediate. Ci sono anche oggetti super funzionali che proteggono i bambini dai terremoti e dagli edifici che crollano dopo i terremoti, detonatori di mine. Si passa, quindi, dai videogiochi ai detonatori di mine in un modo intellettuale e sensuale al tempo stesso. Quello che per me è importante, attraverso queste mostre, è spiegare il design alla gente in modo razionale, chiarendone le regole e le definizioni, ma anche in maniera istintiva: credo sia fondamentale che le persone abbiano un approccio immediato al design, anche senza leggere alcun testo. Quindi per me è molto importante aver inserito i videogiochi e il design applicato, e spero che in futuro il design abbia un ruolo molto più importante nella società e nella cultura e che sia un po’ come la fisica; si avrà quindi la fisica teorica e applicata e il design teorico e applicato. È una sorta di gioco di parole per arrivare all’idea che il design è estremamente importante e che va considerato molto seriamente, non soltanto come un’arte applicata.
Affermi di credere nella tecnologia umanista. Pensi che esista attualmente – da parte dei designer – un rinnovato entusiasmo per la tecnologia del futuro o persiste una visione oscura del futuro?
Ci sono milioni di designer a mondo, con atteggiamenti diversi tra loro. Io credo che un bravo designer sia quello che non ha paura di sperimentare la tecnologia e che è dotato di un buon approccio tecnologico e chiarezza d’intenti. Ci sono designer che si occupano del futuro, altri che sperimentano: il designer che rifiuta la tecnologia ha ancora molto da imparare.
Qual è l’oggetto che ha rivoluzionato la vita delle persone negli ultimi anni?
Domanda non facile. Secondo me il Sony Walkman è stato l’inizio di tutto quello che ha rivoluzionato il modo di usare lo spazio pubblico, e da qui si arriva alla teoria sull’existenz maximum: oggetti piccoli che trasformano il nostro spazio personale. Poi sono arrivati gli iPhone e gli iPod, che ci hanno consentito di costruire uno spazio personale che non ha niente di fisico, il cosiddetto design dell’immersione.
La recente acquisizione da parte del MoMA di quattordici videogames ha suscitato molte polemiche. Qual è stata invece la reazione del pubblico?
Sono state più le reazioni positive che quelle negative. Sono un po’ imbarazzata con i critici, perché spesso le polemiche hanno riguardato l’accostamento di un Pac-Man a un Picasso, e questo è un giudizio di valore secondo me sbagliato. Ai suoi tempi anche Picasso veniva considerato poco e male e Shakespeare veniva considerato un divertimento volgare. Sono davvero convinta che il design sia la più alta forma di ingegno umano e vorrei che la gente capisse che è molto di più che una sedia carina: il design è tutto ciò che ci circonda. Dietro queste acquisizioni c’è una grande mole di lavoro: quando qualcosa deve entrare nella collezione del MoMA deve essere studiato; anche quando sfidiamo la cultura popolare, la sfidiamo in quanto forma di design interattivo. I criteri che abbiamo sviluppato durante il percorso sono forti; non solo criteri di selezione, ma anche di esibizione e conservazione, e ciò rende questa acquisizione ben più di un giochino. È un modo di pensare a come preservare e mostrare reperti che saranno sempre più parte delle nostre vite in futuro. D’altronde, noi oggi viviamo in un calderone che la nostra mente ottiene dal mescolamento del mondo digitale e di quello fisico, ed è questo che rende l’interazione così importante.
Il design italiano è considerato ancora così importante?
Storicamente sì, ovviamente. Nel contemporaneo no, perché non c’è, è troppo legato alla sua storia, ai mobili e alle macchine, non al futuro. Tra i designer italiani trovo molto interessante Giorgia Lupi, designer della visualizzazione.
Tre giovani designer internazionali che consideri innovativi e che faranno parlare di sé.
Ce ne sono tanti che apprezzo e che trovo interessanti. Se proprio devo fare tre nomi, cosa che trovo veramente riduttiva, allora dico Daisy Ginsberg, Neri Oxman e Anab Jain.
Marta Veltri
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