È proprio bello Piero Guccione. Verso l’infinito, il film monografico realizzato da Nunzio Massimo Nifosì. È serrato, approfondito e anche coinvolgente. Sorprende solo che in esso, nel parlare del lavoro dell’artista siciliano, non venga mai usata la parola ‘sublime’. Questo non inficia certo la qualità del film ma, siccome le tavole rotonde si fanno per aggiungere elementi ulteriori di riflessione, dico subito che la mia tesi riguarda appunto questo aspetto.
Secondo me Piero Guccione può essere considerato un artista del “sublime” proprio in senso tecnico, in virtù della consonanza tra gli esiti della sua produzione (in particolare quella recente) e il “sublime” caratteristico dell’arte contemporanea più radicale, a proposito del quale ha scritto un testo importante, per l’arte del XX secolo e oltre (Il sublime è ora, del ‘48), l’artista americano Barnett Newman. Peraltro Newman è stato a sua volta un pittore, alla faccia di quanti considerano la pittura un linguaggio necessariamente conservativo e di retroguardia. (In tal senso non si noterà mai abbastanza come tra gli artisti più “concettuali” della storia dell’arte contemporanea, ce ne siano molti che formalmente – tecnicamente – sono dei pittori; penso anche a Robert Ryman).
Spesso gli artisti (visivi ma non solo), dopo aver realizzato le opere migliori in età giovanile, non fanno che ribadire il guizzo, l’invenzione che li ha portati alla ribalta, e che finisce per costituire un marchio di fabbrica. A mio avviso Guccione è un artista del tipo opposto, di quelli che tendono a enucleare sempre meglio il loro obiettivo, a chiarirlo a loro stessi, e di conseguenza a produrre gli esiti più ragguardevoli in una fase matura. Lo stesso Francis Bacon – artista molto considerato da Guccione – riteneva che i suoi quadri migliori fossero quelli tardi: quelli realizzati negli Anni Ottanta, caratterizzati da una chiarezza anche formale abbacinante, nei quali – come negli ultimi di Guccione – c’è come un sovrappiù di luce. Guccione è insomma artista dei tempi lunghi: ne ha bisogno per realizzare i suoi quadri e ne ha avuto anche bisogno, secondo me, per tendere verso la sua mèta.
Dico questo perché, in relazione al concetto di “sublime”, i suoi lavori più recenti sono anche i più focalizzati, tanto da risultare veri e propri dispositivi concettuali. In essi Guccione agisce entro una sorta di monocromo, portandosi in prossimità del grado zero della rappresentazione, in modo da innescare il sentimento del sublime in termini speculativi, oltre che lirici. Lo fa trasferendo sulla tela cielo, mare e nient’altro, realizzando quadri costituiti da due metà, quella superiore e quella inferiore, che vengono formalizzate come contemporaneamente fuse e distinte, sia otticamente che concettualmente, il che rimanda direttamente al grande Kazimir Malevic, oltre a essere in sintonia con la ricerca di artisti di più recente affermazione (penso a James Turrell, le cui installazioni incorniciano architettonicamente porzioni di cielo; a Ettore Spalletti, per la sua riflessione sulla fisicità muta del colore; a Giulio Paolini, per la riflessione sul concetto di “punto d’osservazione”).
Scrivendo la mia tesi di laurea ho avuto modo di approfondire il pensiero e l’opera di un grande artista (e intellettuale) che come Guccione era follemente innamorato del mare: Alberto Savinio. Qui non voglio proporre alcun confronto tra questi due artisti, che sono completamente diversi. Mi vengono però in mente alcuni testi degli Anni Quaranta – uno è intitolato esplicitamente In vista del mare – in cui Savinio sostiene una tesi piuttosto bizzarra (Savinio è un grande amante del paradosso e della provocazione intellettuale). La tesi è la seguente: tipico di una certa personalità umana che egli definisce “marina” (ampiamente tratteggiata nei suoi scritti: leggera e profonda, verrebbe da dire con riferimento a Nietzsche) non è tanto la ricerca del contatto fisico con il mare, consistente nel nuotare, nell’immergersi, nello stare in acqua, quanto piuttosto l’appagamento tutto visivo che si ha al cospetto del “tremolare della marina”; il piacere “astratto” che si riceve nel contemplarlo, il mare, per se stesso e, soprattutto, a un certa distanza. L’uomo psicologicamente “marino” è anche astratto, questo il senso dell’elucubrazione saviniana.
L’opera matura di Guccione sembra tradurre in visioni questa tesi, dal momento che i suoi mari, che sono sempre “distese”, si guardano in lontananza e per esteso. D’altronde Guccione “astratto” lo è sempre stato, fin dalle prime opere: ha dipinto balaustre, inferriate; ha dipinto rondini che più che uccelli sembrano “linee-forza” – come ha scritto nel 1981 il critico Guido Giuffrè –; ha dipinto vetrate di aeroporti scandite architettonicamente come progressioni minimaliste. A mio parere Guccione è anzitutto un cantore della linea, in quanto elemento “astratto” che si rinviene anche nel reale; ciò che costituisce il nucleo della sua opera è proprio la sorpresa del rinvenire linee pure nel reale. Non dirò che non ha dipinto altro che linee; dico solo che in tutta la sua produzione si rinviene questa attrazione/ossessione, e che la stessa, negli anni, ha assunto connotati sempre più “mentali”. Egli finisce per scovarla, la linea di cui intende parlarci, nel luogo più sgombro e vasto: al mare, nel momento in cui acqua e cielo sembrano fondersi; quando la linea dell’orizzonte si offre alla percezione umana in termini ambivalenti e sublimi: nella sparizione.
Quindi io inquadro il lavoro più recente di Guccione, artista del “raggio verde”, se pongo a mente gli “zip” di Barnett Newman. Ovviamente con i dovuti e netti distinguo: l’artista americano fa “vedere” lampi mentali in un contesto non figurativo, cioè a dire immateriale, e in verticale; Guccione ritrae invece una linea naturale – quella orizzontale appunto dell’orizzonte – in un contesto mimetico che però non appare più del tutto tale. (Peraltro nel film viene inquadrato un lavoro, attraversato da una linea verticale anziché orizzontale, in cui la somiglianza con gli esiti di Newman è davvero impressionante. Quanto al “raggio verde”, mi riferisco al fenomeno ottico per cui, al mare, subito dopo il tramonto, compare una sottile linea verde in corrispondenza dell’orizzonte.)
Certo, guardando agli ultimi lavori di Guccione non si può non pensare, d’altro canto, anche al sublime – “romantico” in senso più codificato – di Caspar David Friedrich. Ma è proprio questo il dato interessante sul piano storico-critico, il fatto cioè che nei quadri di Guccione vengano formalizzati come compresenti, e dunque correlati, due paradigmi tra loro in apparenza irriducibili: il riduzionismo minimal e un romanticismo canonicamente inteso. Come a dire: “C’è stato Newman perché c’è stato Friedrich”. Il che, più in generale, aiuta a comprendere come l’arte contemporanea, e in particolare il suo côté anti-espressionista, proprio per il suo incessante tendere al sublime – col suo presentare/problematizzare slittamenti di senso – sia in realtà figlia della sensibilità romantica. Lo stesso Friedrich è un pittore “freddo”: non dipinge in modo espressionista, tutt’altro; la sua visione non dà sul pittorico, ma è di tipo fotografico.
Si obietterà: Friedrich, però, tende al “notturno”. Ma anche questo vuol dire poco, visto che esiste pure un sublime del tipo opposto, che potremmo definire “mediterraneo” – come quello formalizzato dal grande Giorgio de Chirico –, che si fonda piuttosto sul binomio straniante mistero/luminosità. (Si tenga a mente che Alberto Savinio e il fratello Giorgio de Chirico erano, biograficamente parlando, oltre che italiani, greci e tedeschi.) Secondo me ciò che vi è di “mediterraneo” nei quadri recenti di Guccione – che, lo ripeto, a mio avviso sono i più rilevanti – è l’elemento “panico”, che è infatti caratteristica supremamente “greca”. Notoriamente sul piano mitografico l’elemento panico non ha a che fare con la notte e le brume – per paradosso se vogliamo –, ma al contrario con la luce accecante e i momenti di vuoto, vastità e silenzio, che caratterizzano in modo particolare il paesaggio mentale del Mediterraneo. (E infatti i pittori anglosassoni, anche quando “scuri” e/o goticheggianti, nel ritrarre il paesaggio raramente risultano “panici”.)
Concludendo, ritengo che nel valutare il lavoro di un artista sia opportuno ampliare lo sguardo, provando a esaminarlo come se fosse possibile farlo dal futuro. Secondo me l’opera di Guccione tenderà ad acquisire sempre maggior rilevanza allorché il concetto di “sublime” si chiarirà come centrale, nella valutazione storico-critica di quello che chiamiamo “il contemporaneo”. E d’altra parte, se in futuro sarà possibile riconnettere l’orizzonte di senso del riduzionismo novecentesco a elementi scaturiti direttamente dal romanticismo, ciò potrà avvenire sull’esempio di artisti in cui è più scoperta la commistione di questi due paradigmi, occorrenza questa che nell’opera di Piero Guccione è assolutamente palpabile.
Pericle Guaglianone
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