La commedia italiana
Umiliati e offesi. Ecco, prendere coscienza di questa condizione è importante, anzi fondamentale. Ma deve essere soltanto un primo passo. Il secondo è passare ai fatti. Altrimenti anche la presa di coscienza della propria situazione diventa nociva, o almeno inefficace. È domenica, è il giorno di Inpratica.
Ecco una descrizione breve ma precisa di come vivono i siriani a Damasco questi giorni di attesa e sospensione: “A passeggiare per la città si farebbe fatica a pensare che il blitz americano possa avvenire nei prossimi giorni. Le piscine, i ristoranti, i caffè, le strade si sono riempiti. Hanno perso quell’aria sinistra di obiettivi da colpire. Unico segno visibile che qualcosa sia cambiato: le tintorie non accettano più abiti da pulire. Infatti, non sanno se fra qualche giorno i loro negozi esisteranno ancora e se perciò potranno restituire gli articoli ai clienti. Da due anni e mezzo i siriani hanno iniziato il lungo apprendistato dell’abituarsi alle minacce. Fanno quel che sanno fare meglio da quando la guerra è iniziata: adattarsi. In fin dei conti, non hanno altra scelta. I giovani hanno smesso di sposarsi: come creare una famiglia con la disoccupazione alle stelle e la lira siriana svalutata? Gli adulti hanno abbandonato ogni impresa: l’economia è a un punto morto. Quanto ai bambini, non vanno più a scuola” (Jean-Pierre Duthion, <Il paradosso dei siriani in piscina, “la Repubblica”, 3 settembre 2013).
Colpisce e fa impressione la somiglianza negli atteggiamenti tra siriani e italiani. Anche noi, in modo sicuramente diverso e meno traumatico, stiamo vivendo sospesi: la nostra economia è ferma, paralizzata, gli investimenti bloccati, i finanziamenti a settori strategici in larga parte rimandati, tagliati o fortemente ridimensionati, in attesa di… di che cosa?
Da una parte, anche noi stiamo da tempo facendo esperienza di un’economia – e di una società – di guerra, a modo nostro. Guerra senza bombe né massacri, per carità; ma caratterizzata forse dallo sterminio interiore di due o tre generazioni. Pian piano, poi sempre più velocemente, ci siamo adattati ad accettare condizioni inaccettabili, a vivere come non avevamo preventivato. A provare sulla nostra pelle questo progressivo e inesorabile distacco tra le nostre aspettative e l’esistenza come effettivamente la stiamo sperimentando.
Ora, questo processo ha due effetti principali. Da una parte, ci ha resi senza dubbio migliori: non in gran parte viziati, cresciuti nella falsa bambagia degli Anni Ottanta e nell’età dell’oro finto degli Anni Novanta, siamo stati già messi alla prova, induriti dagli eventi e dalle botte prese. Ci avevano promesso il Bengodi, abbiamo avuto al massimo un piatto di lenticchie. Lentamente, nel corso dell’ultimo decennio (il primo del nuovo secolo) abbiamo acquisito la consapevolezza di quella che amabilmente oggi conosciamo come la Fregatura, la Truffa ai nostri danni (di cui peraltro noi, con la nostra ingenuità e incoscienza, siamo stati complici).
Il secondo effetto, riflesso diretto del primo, non è positivo (almeno nelle sue manifestazioni primarie e preliminari): questa graduale consapevolezza ha costruito dentro di noi una tendenza particolarmente pervicace all’autocommiserazione. Per ora, invece di assumere su di sé finalmente la responsabilità di ciò che sta accadendo e – soprattutto – di ciò che accadrà, sembra proprio che trentenni e ventenni abbiano scelto come vocazione principale (anche se non unica) quella della lamentatio. Il refrain è: “Ci avete privato del nostro futuro e del nostro presente, siamo umiliati e offesi, non abbiamo garanzie, stiamo cercando faticosamente di adattarci a questa sfiga permanente ma non è facile, e voi adulti ci rendete le cose ancora meno facili”.
Occorre uscire da questa ennesima gabbia concettuale, da questa ultima e definitiva forma di sequestro esistenziale. E diventare i padri dei nostri genitori.
Quel messaggio va bene al massimo come presa di coscienza iniziale, come punto di partenza di un percorso cognitivo ed esistenziale. Ma, quando si salda con il compiacimento di questa condizione marginale assurta a programma di vita, è a tutti gli effetti devastante. Del resto, esattamente un anno fa Nicola Lagioia ha efficacemente messo in guardia tutti da rischi di questo tipo: “Gli sfruttati, gli emarginati, i calpestati e gli incompresi devono essere davvero tali (cioè migliori) nella coscienza del mondo futuro, mai ai propri stessi occhi. È questo il pericolo da evitare. Crederci migliori è esattamente la trappola caduti nella quale ci sentiremmo legittimati a fare di quell’infantilismo, servilismo, invidia e opportunismo latenti le armi con cui mandare avanti il secondo tempo della nostra vita. Allora sì, saremmo perduti” (Generazione perduta?, “Orwell”, 15 settembre 2012).
Christian Caliandro
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