Qualche giorno fa offrivamo un’anteprima su una delle più grandi esposizioni di Street Art degli ultimi anni. La Tour Paris 13 non è solo un luogo abbandonato, rivissuto attraverso gli interventi artistici. È piuttosto un tentativo di creare un museo che soddisfi alcune delle caratteristiche del fenomeno e del modus operandi: temporaneo, complesso, globale. Il progetto – visibile solo dal 1° al 31 ottobre – coordinato da Galerie Itinerrance, nella persona Mehdi Ben Cheikh, punta a un respiro internazionale sottolineando alcune geografie emergenti. Nell’edificio, infatti, batte anche un cuore italiano: Il Piano non è solo lo spazio dedicato alla scena nazionale; è, per essere precisi, la sezione curata dall’agenzia Le Gran Jeu, in cui compaiono quindici artisti a rappresentare la molteplicità del Belpaese.
Abbiamo incontrato Christian Omodeo, direttore artistico di Le Grand Jeu, storico dell’arte e curatore basato a Parigi, a cui chiediamo lumi sull’operazione e qualche riflessione generale.
Raccontaci cosa è successo in questi mesi. Com’è nato il progetto La Tour Paris 13? Che cosa significa trasformare un edificio residenziale in un museo, seppur temporaneo, di Street Art?
La Tour Paris 13 è una sorta di spin-off di una politica di lungo periodo che la Mairie del 13esimo arrondissement di Parigi porta avanti nei confronti della Street Art. Senza voler essere pretenzioso, prova anche a essere una mostra di Street Art che colmi il vuoto lasciato dal relativo insuccesso di Né dans la rue, tenutasi alla Fondation Cartier nel 2009, e dalla mancanza di una risposta dei grandi musei europei, a partire dal Palais de Tokyo, alla mostra Art in the Streets organizzata da Jeffrey Deitch al MOCA nel 2011.
Trasformare un edificio residenziale in un museo è una scelta che si iscrive alla perfezione nel modello economico della Street Art. Ogni artista ha avuto massima libertà di azione, ma sono stati al tempo stesso tenuti sotto controllo i costi di produzione, perché in un palazzo destinato alla distruzione è possibile realizzare interventi inimmaginabili all’interno di uno spazio museale. Penso al francese Sambre, che ha ricreato una finta prospettiva borrominiana smontando e segando decine di porte nei vari appartamenti. Così, puntando sull’intelligenza dei singoli interventi e sulla forza di una comunità artistica cosmopolita che ha abbracciato con fervore l’idea alla base della Tour Paris 13, è nata una mostra che fa potenzialmente concorrenza ai grandi centri espositivi parigini con un budget infinitesimale rispetto al loro.
Con Le Grand Jeu avete proposto e ottenuto un piano per la scena italiana. Domanda di rito: cosa offre il panorama nazionale?
L’Italia ha avuto un ottimo rapporto con la Street Art negli Anni Ottanta. Penso alle ricerche di Francesca Alinovi, alla mostra Arte di Frontiera e al lavoro fantastico di numerosi galleristi che hanno invitato artisti americani in Italia in quegli stessi anni. Gli Anni Novanta e Zero sono stati paradossali: la scena italiana è cresciuta proprio mentre scemava l’interesse locale per questo movimento. Il percorso artistico di Blu è emblematico del modo in cui si sono formati e imposti gli street artist italiani negli ultimi vent’anni.
Oggi la Street Art italiana offre sicuramente un panorama più ricco rispetto a molte altre realtà europee, ma solo in alcuni ambiti. È, ad esempio, un Paese leader a livello mondiale nel settore dei festival. Anche se la qualità degli interventi cambia da città a città, l’Italia si sta arricchendo di un notevole patrimonio di facciate dipinte, che in alcuni casi saranno probabilmente storicizzate come quella dipinta da Keith Haring a Pisa nel 1989. Penso, solo a titolo di esempio, ad alcuni degli interventi realizzati a Torino nell’ambito di Picturin o a Bologna durante Frontier – La linea dello stile.
Com’è avvenuta la selezione degli artisti?
Avevamo a disposizione quattro appartamenti. Avremmo potuto chiamare quattro artisti, ma abbiamo preferito presentare una selezione più ampia per offrire uno spaccato fedele della scena italiana, rappresentando tutte le correnti che la compongono, dai graffiti alla stencil art, passando per il post-graffiti e quegli artisti contaminati dai codici figurativi dell’illustrazione.
Gli artisti sono stati selezionati in base alla rappresentatività del loro percorso, al loro sesso – abbiamo voluto fermamente MP5 e Senso, due street artist donne – e alla loro età, perché volevamo lasciare spazio ad alcuni giovani. Gran peso ha avuto anche la dimensione relativamente ridotta degli appartamenti. In 50 mq non puoi sempre accostare stili troppo diversi tra loro. Infine, non bisogna dimenticare che il piano italiano è stato finanziato esclusivamente da Le Grand Jeu, anche perché sarebbe stato un controsenso chiedere sponsorizzazioni per questo progetto. Questo ha precluso alcune possibilità, ma ha sicuramente lasciato più libertà di azione agli artisti coinvolti.
Entrambi siamo a conoscenza delle principali discrepanze tra Italia e resto del mondo in fatto di arte urbana. Vorresti portarci una riflessione in merito?
La Street Art attraversa in Italia una fase di stallo. Ci sono gli artisti, ci sono dei festival, esiste anche un pubblico interessato, ma manca ancora un tessuto coeso di realtà istituzionali, di gallerie, di collezionisti e di critici ad accompagnare con regolarità la naturale istituzionalizzazione di un movimento nato al di fuori del sistema dell’arte. Al tempo stesso, esiste anche una tendenza da parte di alcuni street artist italiani a ignorare l’istituzionalizzazione del movimento, nel tentativo di rimanere fedeli allo spirito delle origini. Sono scelte che rispetto, ma che ho serie difficoltà a capire.
Personalmente, se ho deciso di studiare la Street Art è perché si tratta di un movimento artistico che sconvolge le regole elitarie del sistema dell’arte. Non percepisco la sua istituzionalizzazione come un freno a questa dinamica. Mi sembra piuttosto la possibilità di portare a compimento su larga scala il progetto iniziale e di evitare che il sistema dell’arte ricrei una Street Art fittizia, che escluda dalle gerarchie artistiche degli artisti difficilmente assimilabili alle logiche del loro tempo. Se penso agli Anni Ottanta, mi chiedo perché si continuano a fare mostre su Keith Haring e Basquiat senza indagare a fondo il ruolo avuto in quell’ambiente e nell’elaborazione di quei linguaggi da Rammellzee e Dondi White. Il lavoro che porto avanti con Le Grand Jeu è solo un modo per mettere fine al perdurare di cortocircuiti come questi e per evitare che se ne creino di nuovi.
Claudio Musso
www.tourparis13.fr
www.legrandj.eu
www.itinerrance.fr
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