“Luca Rossi, sei paranoico”. Parola di Sergio Lombardo
La dittatura del curatore, l’assenza della critica, l’invadenza delle pubbliche relazioni, il passatismo dei giovani artisti. Tutti i cavalli di battaglia di Luca Rossi (intervistatore) alla prova della valutazione di Sergio Lombardo (intervistato).
Fa effetto vedere come una ricerca interessante e consapevole come la sua sia stata emarginata rispetto la visibilità di cui hanno goduto molti artisti negli Anni Sessanta e Settanta. Pensa che le “pubbliche relazioni” siano una materia che l’artista deve saper trattare rispetto alla dittatura del critico e del curatore? Se in una foresta cade un albero e nessuno è lì per testimoniarlo, l’albero è mai caduto?
Se nessuno testimonia che nella foresta è caduto un albero, l’albero comunque è caduto, perché un albero non ha bisogno di testimoni per cadere.
Diverso è il caso di un artista. Infatti l’artista, secondo la definizione eventualista, è colui che mostra nuovi ideali nascenti all’umanità e da questa viene definito “artista”. Ma il titolo di artista viene attribuito solo dopo che tali ideali siano stati riconosciuti come “rappresentativi” di una civiltà e perciò inclusi nel patrimonio storico dell’umanità. Se ciò non accade, non c’è stato alcun artista e la storia dell’umanità non è stata influenzata da nuovi ideali.
Ma chi è preposto a riconoscere tali ideali? Lo spettatore? Il critico? Il curatore? Il collezionista?
L’adesione, o l’identificazione, verso gli ideali nascenti è spontanea e riguarda tutti, ma il processo in gran parte non è volontario né consapevole. Le persone sono spesso arroccate su ideologie e presunzioni pregresse, perciò il processo evolutivo è lento e in gran parte inconscio.
I modelli – opere d’arte, stimoli eventualisti – che rappresentano questi ideali nascenti, in un primo tempo subiscono un tipico fenomeno di rigetto, poi vengono riconosciuti da singoli e gruppi che convergono, formando un movimento che si identifica con quei valori e se ne serve per divulgarli verso l’esterno e conquistare maggiore consenso, prestigio e potere. Così si espandono i movimenti culturali che fanno la storia: per amore (arte) o per forza (guerra).
Il critico, il curatore e il collezionista sono intellettuali (“commessi del potere”, secondo la definizione di Gramsci) che, avendo aderito a questi valori nascenti, si incaricano di spiegarli e divulgarli per conquistare popolazioni sempre più vaste, costruendo in tal modo, con armi “pacifiche”, all’evoluzione storica della civiltà umana.
Le confesso che, dal mio punto di vista, le “pubbliche relazioni” sono assolutamente irrilevanti, e quello che lei chiama “dittatura del critico e del curatore” mi sembra un’illusione leggermente paranoide, usata forse per alleviare le delusioni di qualche sedicente artista.
Prima di dire che si tratta di paranoia, bisogna capire oggi chi è preposto a riconoscere gli ideali che rendono artista o non artista, e che rendono un’opera di valore o non di valore. Chi lo stabilisce? Chiunque lo stabilisca, se non agisce con lealtà, onestà e capacità, rischia di imporre una dittatura arbitraria. A fine Anni Novanta un gruppo di dirigenti ha caricato arbitrariamente di valore alcuni titoli Parmalat. Non c’è il rischio che avvenga anche nell’arte questa dinamica arbitraria?
L’identificazione verso ideali nascenti è spontanea e fulminante, come l’innamoramento. Non riesco a immaginare qualcuno “preposto” a far innamorare le persone, a parte la Propaganda Fide, che però usa ideali già nati illo tempore.
Caricare i titoli di valore arbitrario è una pratica criminale, ma passeggera, e non autorizza a pensare a una dittatura del crimine, anche se in Italia in certe zone la criminalità sembra endemica. Convengo con lei che anche nel mercato dell’arte, come in qualsiasi mercato, molte società, fondazioni, gallerie cercano di manipolare arbitrariamente la definizione e il prezzo della merce “arte”. Da questo punto di vista, lei ha pienamente ragione. Mi fa piacere che oggi lei riprenda con forza questi concetti riallacciandosi a quanto da me sostenuto già quarant’anni fa e che ha determinato la mia scelta di isolamento intellettuale per dedicarmi alla ricerca scientifica della bellezza, libero dai limiti e dalle imposizioni del mercato. La invito a leggere, o rileggere, alcuni articoli che avevo scritto su questi argomenti [raccolti in L’avanguardia difficile, Lithos, Roma 2004, N.d.R.].
Ho saputo che lei avrebbe detto a Germano Celant che, se voleva conoscere il suo lavoro, doveva venire lui nel suo studio e non il contrario. Anche oggi, con artisti e linguaggi sempre più omologati e deboli, tende a dominare il ruolo del curatore come “autore-regista” che può godere di un rapporto diretto con la committenza. Gli artisti forniscono sfumature per un quadro che vede il curatore come autore principale. Mentre i critici d’arte non esistono in quanto, prima del dominio del curatore, esiste il dominio delle pubbliche relazioni: fare critica, come la capacità di argomentare luci e ombre di un’opera, non favorisce certo le pubbliche relazioni e le risate durante gli aperitivi. Cosa dovrebbe fare secondo lei l’artista comunemente inteso rispetto a questo dominio del curatore e delle pubbliche relazioni?
È falso che io avrei polemizzato con Germano Celant su chi dovesse andare da chi. È vero invece che il curatore oggi ha un ruolo preponderante rispetto all’artista giovane, mentre rispetto all’artista affermato, secondo me, i pesi si equivalgono. Effettivamente il curatore ha un rapporto diretto con la committenza, pubblica o privata, che gli conferisce l’incarico, ma in ogni caso a me non interessa la “committenza”, per il semplice motivo che non mi ritengo né un artigiano, né un professionista a caccia di committenza. Il mio lavoro sperimentale di scienziato della bellezza è incompatibile sia con la mondanità, che mi annoia mortalmente, sia con chiunque mi faccia perdere tempo conferendomi incarichi, magari remunerativi, ma che non rispettino la mia assoluta libertà di ricerca.
So bene che il mio atteggiamento può condurre verso una forma di apparente isolamento sociale, ma il percorso umano dell’artista è tale quando alcuni seguaci, pochi o tanti che siano, spontaneamente lo “amano” identificandosi con i suoi valori ideali, non quando, attraverso un abile lavoro di pubbliche relazioni, costringe gli altri a fingere di amarlo.
A mio parere la bellezza, nell’arte come nella vita, attiene maggiormente al processo che alla cosa finita. Solitamente la “cosa finita”, come l’opera, risulta essere il risultato di questo processo; risulta essere il testimone di questo processo. Esattamente come una torta è buona perché discende da un processo di qualità. Cos’è per lei la bellezza?
La bellezza è un effetto psicologico individuale causato dall’intuizione, per lo più inconscia, che in uno stimolo (evento, modello, opera d’arte, persona speciale) siano contenuti dei valori ideali in grado di migliorare la nostra vita, rendendola più raffinata, più autentica, più evoluta, e quindi anche in grado di guidarci verso esperienze di felicità superiori a quelle garantite dalla sicurezza difensiva del conformista. La bellezza dell’arte è un effetto psicologico molto simile a quello individuale, ma che investe un’intera cultura storica.
Ultimamente, per molti giovani artisti e giovani curatori, la bellezza risiede nel recupero di codici formali e citazioni dal passato. Questa “operazione nostalgia” sembra rassicurante per una generazione di giovani mantenuta in ostaggio dalle generazioni passate; recuperare il passato sembra una forma di saggezza e avanguardia “sicura”, veloce e non criticabile, una sorta di “fast food della citazione”. In fondo come criticare un giovane che fa riferimento al passato? Quello che è molto criticabile è la reiterazione sistematica della citazione, con il risultato che si tratta sempre del medesimo artista e del medesimo lavoro. Passatista, futurista o presentista?
Il fascino del passato è fortissimo. Chi non ricorda con nostalgia l’infanzia? Specialmente quando sente di aver perso ingiustamente dei privilegi e non è in grado di immaginarne di migliori per il futuro. Una delle componenti della felicità del bambino è la lunghezza e la misteriosità del futuro, mentre gli anziani tendono alla depressione perché si aspettano ben poco dal futuro. Per l’artista è diverso. L’artista, almeno secondo me, vive in un mondo che gli altri conosceranno e apprezzeranno dopo decenni, forse dopo secoli; lui lavora per esplorare i mondi possibili che si trovano nel futuro, perciò è appassionato e a volte felice anche da vecchio.
Quelli che si arroccano su valori passatisti sfoggiando ideali già consolidati e quindi “sicuri” non vogliono conquistare “uomini”, ma solo un po’ di denaro, come vendere l’effige dei santi.
Nel suo lavoro è evidente un interesse per la dimensione inconscia e interattiva dello spettatore. Perché le interessano inconscio e interattività?
L’inconscio e l’interattività sono ingredienti delle relazioni profonde fra umani. Io diffido dell’ipocrisia, della prepotenza psicologica collettiva e del conformismo. Vorrei attirare l’interesse degli altri solo se è autentico, perché l’interesse opportunistico lo trovo estremamente fastidioso. Per evitare gli approcci opportunistici a volte mi isolo, seguo percorsi acrobatici, inesplorati, molto ansiogeni per chi non è un giocatore d’azzardo.
La provocazione, che è un metodo di interattività teorizzato dal Futurismo, stimola il pubblico a esprimere contenuti inconsci che altrimenti verrebbero rimossi, mascherati e resi compiacenti con le aspettative dell’autorità. Il comportamento consapevole omologa gli esseri umani, li rende prevedibili, forse rassicuranti, ma poco interessanti. Al contrario, io ricerco le differenze profonde fra individui, costruisco situazioni psicologiche in cui ciascuno svela qualcosa che lo rende unico e quindi potenzialmente conflittuale con tutti gli altri.
Purtroppo quello che accade oggi nelle mode cosiddette “relazionali” sembra mirato più alle pubbliche relazioni che alla ricerca di una profonda e autentica interattività.
Vorrei parlare del suo lavoro che consiste in una sfera che, se mossa, inizia a emettere una sirena udibile fino a 800 metri, e che continua fino a quando qualcuno non la rimette esattamente nella posizione iniziale. Pensa che l’opera stia esistendo anche ora, nel racconto della mia scrittura e nella mente del pubblico che leggerà questa intervista? Se sì, dove sta il centro dell’opera? Nell’esperienza dell’oggetto reale o nell’immaginazione?
L’immaginazione è parte della realtà umana e può essere provocata da fatti materiali, oggetti, racconti, pensieri, esperienze e anche da altre precedenti immaginazioni.
Dal mio punto di vista eventualista, come nel caso della Sfera con Sirena, il processo che crea l’esistenza storica del fenomeno “arte” si divide in tre fasi: lo “stimolo” che mette in moto atti, fatti, pensieri, aspettative, progetti, modificazioni dell’informazione, interpretazioni, immaginazioni e quant’altro ne venga modificato. Ciò che lo stimolo mette in moto o modifica è detto “spettro evocativo” dello stimolo. Tale spettro evocativo può essere estremamente uniforme o estremamente differenziato e fluttua sia in senso sincronico che diacronico. Consideriamo lo spettro evocativo uniforme. Se qualcuno, ostentando come stimolo la rappresentazione di una curva parabolica, chiedesse a un campione di 100 persone di dire il nome di tale curva, lo spettro evocativo sarebbe estremamente uniforme, perché quasi tutti direbbero: “curva parabolica”. Nella teoria eventualista, quando lo spettro evocativo è uniforme, non c’è evento, e lo stimolo non è un’opera d’arte eventualista. Il caso della curva che ho citato, infatti, descrive un’opera d’arte “concettuale” creata da Bernard Venet nel 1966. Gli artisti concettuali volevano evitare l’ispirazione arbitraria, o poetica, dell’artista, perché l’opera “poetica” per definizione è ispirata da forze sacre superiori, che l’artista non è in grado di replicare e tanto meno di migliorare. Afferma infatti Sol LeWitt: “Quando un artista utilizza una forma di arte concettuale vuol dire che tutto il progetto e tutte le decisioni vengono prese anticipatamente e che l’esecuzione si riduce a un fatto meccanico”.
Il limite dell’arte concettuale è che, proseguendo sulla linea dell’ingegnere futurista e dell’avanguardia scientifica, quindi volendo evitare le scelte arbitrarie del poeta-stregone, finisce per creare oggetti privi di spettro evocativo e quindi poco interessanti. L’Eventualismo, che nella seconda metà degli Anni Sessanta si delineava sempre più chiaramente nella mia ricerca, mi portò a creare stimoli capaci di provocare uno spettro evocativo estremamente differenziato, tale che se esposto a 100 persone tenda a produrre circa 100 interpretazioni tutte diverse fra loro (spettro sincronico) e se esposto in tempi successivi per 100 volte alla stessa persona tenda a produrre circa 100 interpretazioni diverse anche nella stessa persona. Questo effetto dello stimolo su un campione rappresentativo di persone è definito “evento” e costituisce il fulcro dell’arte eventualista.
La Sfera con Sirena in senso sincronico funzionò egregiamente, sia alla Biennale di Parigi nel 1979, sia alla Biennale di Venezia nel 1970, ma rispetto allo spettro diacronico rimasi deluso. Molte persone tornavano più volte nella sala della Biennale di Venezia, ma solo per giocare con le sfere e per fare baccano. La progressiva restrizione diacronica dello spettro evocativo dello stimolo eventualista è inevitabile e l’ho chiamata “decadimento” dell’evento.
Dopo aver negato radicalmente l’interazione relazionale con il pubblico (Progetti di Morte per Avvelenamento, 1970), l’effetto decadimento mi spinse a cercare di produrre l’evento all’interno di una situazione sperimentale controllata (Vendite all’Asta, 1971; Concerti Aleatori, 1971-75; Specchio Tachistoscopico con Stimolazione a Sognare, 1979), e infine a creare forme senza senso capaci di stimolare nel pubblico percezioni soggettive molto differenziate e quasi “deliranti” (Pittura Stocastica dal 1981; Stochastic Tilings dal 1993; 12/24 Chromatic Heawood Maps dal 2001; Stochastic Faces, 2013).
Ora posso rispondere alla sua domanda: se il centro dell’opera si trovi sullo stimolo o sull’immaginazione del pubblico. L’opera d’arte per essere tale necessita sia dello stimolo, che deve provocare l’evento nel pubblico, sia dell’immaginazione pubblico, che deve creare interpretazioni molto differenziate e conflittuali, mettendo in atto quei cambiamenti di sensibilità capaci di far evolvere la cultura storica verso mondi e ideali più raffinati.
Luca Rossi
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