Nel 2006 hai pubblicato su Repubblica il tuo saggio a puntate, I barbari. Sette anni dopo sei arrivato anche negli Stati Uniti…
È stato Oscar Farinetti a credere in quest’operazione. Grazie a lui, il libro è stato edito da Rizzoli per il pubblico americano. Per noi italiani è molto difficile esportare in questo Paese la saggistica. Siamo più bravi a farci conoscere per il cibo o le bevande che per la critica sociale che sappiamo produrre.
Con questo libro ti eri proposto di “pensare il presente: scrivendo”. L’opera avrebbe dovuto intitolarsi La mutazione. Avevi scelto questo titolo per annunciare l’inizio di una nuova era?
Sì, di una nuova era a cui non si è ancora dato un nome.
“È uno spreco di energie ammirare il passato”: parole di Marinetti. Nel suo Manifesto, il leader futurista esaltò in più passaggi la velocità. Possiamo considerare Marinetti profeta di questa nuova cosiddetta era della velocità?
Il Futurismo era molto connesso al progresso della tecnica dell’epoca. Scatti tecnologici simili sono difatti successi più volte durante la storia dell’uomo. Questo presente contiene però un aspetto nuovo, inedito: il trionfo della categoria della superficialità.
Superficialità al potere?
A tutto. Si predilige la quantità alla qualità. Si preferisce avere montagne di nozioni, piuttosto circoscritte che approfondite. Anche nei principi è lo stesso, difficile incontrare valori radicati in profondità.
Nel realizzarla, hai più volte sottolineato il valore partecipatorio dell’opera. I commenti dei lettori relativi a una puntata hanno influito sui contenuti dei successivi. Con quale peso?
I contributi dei lettori erano particolarmente riconducibili a due categorie: esempi relativi alle proprie vite private e professionali. Questi confermavano quello che sostenevo e mi davano sicurezza su quanto affermassi. E poi c’erano le richieste di maggiori spiegazioni, che mi davano la possibilità di capire se non ero riuscito a far passare un concetto e quindi avevo bisogno di affrontarlo di nuovo.
A proposito di concetti che hai dovuto affrontare di nuovo, nel 2009 un tuo articolo su Repubblica relativo ai finanziamenti pubblici alla cultura sollevò un grosso polverone, che ti costrinse a ricevere attacchi e ad aggiungere spiegazioni successive. Quattro anni dopo, cosa è rimasto di quella polemica?
Ricevere critiche succede quando ci si pronuncia con coraggio. Attaccavo da vicini i privilegi di un gruppo e questi giustamente sono insorti. Semplificando.
Parlavi di interrompere i finanziamenti pubblici destinati a teatri e all’opera e di destinarli verso il Paese reale, ovvero tv e scuola. Internet, alleggerendo il peso dei suddetti luoghi, ha reso superflua la discussione?
No. Internet divora il tempo della gente, d’accordo, ma nello stesso tempo offre maggiore possibilità alle persone. Si informa su Internet su dove andare e poi si muove. La gente esce ancora. Il senso del dibattito rimane. I blocchi mentali, culturali e politici che ne impediscono lo sblocco, pure.
Il mondo del libro, a causa di Internet, ha suo malgrado dovuto affrontare grossi cambiamenti. Dal tuo punto di vista di scrittore, ci faresti una breve analisi dello stato dell’arte dell’editoria?
Il prodotto libro sta invecchiando. A sostituirlo ci sta provando l’e-book, ma almeno in Italia le vendite sono ancora bassissime. In generale, neanche il blog è in grado di sostituire il libro. È un po’ come la differenza tra cucina di strada e lo chef de haute cuisine. Sono ancora due fenomeni distinti e continueranno a esserlo. Il libro, come tutti i settori, ha subito una contrazione. Il ridimensionamento dei volumi d’affari c’è, ma è generale.
A proposito della crisi che sta vivendo l’Italia, il nostro popolo si sta segnalando per una totale incapacità a reagire alla crisi tanto economica quanto politica e culturale. È giusto descrivere questa vague depressiva come un’avanguardia capace di avvolgere il resto del mondo?
Può darsi. Possono trovarsi laboratori dove si sperimentano fenomeni che poi diventano planetari anche ai margini dell’impero.
Quale impero?
Quello americano.
Esiste ancora?
E certo.
Alessandro Berni
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