Dialoghi di Estetica. Parola a David Rimanelli

Firma importante per Artforum, Davide Rimanelli ha curato la scorsa primavera/estate una mostra intitolata “DSM-V”. Titolo che sembra il nome di un’auto, come dice lui, ma che invece si riferisce al manuale di psichiatria per eccellenza. Tornano così i “Dialoghi di Estetica” che Artribune propone in collaborazione con il LabOnt, il Laboratorio di Ontologia dell’Università di Torino.

DSM-V, la mostra da te curata e fortemente voluta da Vito Schnabel, è solo l’ultimo dei tanti tentativi che vengono costantemente fatti per indagare il rapporto fra arte e malattia mentale. Ma partiamo dal titolo, un tecnicismo che già sembra mostrarcene la peculiarità. Perché un riferimento così esplicito alla quinta revisione del Manuale Diagnostico e Statistico dei disturbi mentali, la Bibbia della psichiatria ortodossa redatta dall’American Psychiatric Association?
Dici bene, il DSM è la Bibbia dell’establishment americano in psichiatria, e l’influenza che esercita oggi è al di fuori di ogni possibile immaginazione. Chi si è sottoposto ad almeno una visita psichiatrica negli Stati Uniti (e dunque, per estensione, a un qualsiasi psicoterapeuta) ha ricevuto una diagnosi basata su una delle categorie del DSM. È l’unico modo per essere rimborsato dall’assicurazione sanitaria (se sei abbastanza fortunato da poterti permettere un’assicurazione che copra anche le cure relative alla salute mentale). Lo stesso accade per i farmaci rimborsabili dal sistema sanitario: qualsiasi medico di base può prescrivere farmaci come il Prozac o lo Zoloft e addirittura anti-psicotici come lo Zyprexa (sempre più spesso gli anti-psicotici vengono utilizzati in combinazione con gli anti-depressivi nei casi di depressione grave). Il DSM “è alla base” di queste diagnosi: la sua influenza, istituzionale e terapeutica, è enorme. È una di quelle cose di cui le persone non hanno contezza ma che in maniera diretta o indiretta impattano sulla loro vita.

La mostra, ospitata negli spazi del Farley Post Office di New York dall’8 maggio al 4 giugno scorso, ha avuto luogo proprio mentre usciva la quinta revisione del DSM…
Sì, ovviamente non si tratta di una coincidenza casuale – il mese, maggio, è stato il mese della mostra e quello in cui il DSM-V ha visto la luce – anche se era da tempo che i media parlavano della quinta revisione del manuale (il New York Times, The New Yorker, fra i tanti…) per le  controversie che le modifiche apportate rispetto al DSM-IV hanno suscitato nella comunità degli psichiatri. Non è certo la prima volta che questo accade – basti pensare che l’omosessualità, considerata una condizione psichiatrica, è stata rimossa dal DSM solo nel 1986 – ma stavolta il dibattito ha avuto una più vasta risonanza mediatica, credo.

David Rimanelli, Agnes Gund e Vito Schnabel all'opening di DSM-V, New York 2013 - photo Bek Andersen - Courtesy Vito Schnabel

David Rimanelli, Agnes Gund e Vito Schnabel all’opening di DSM-V, New York 2013 – photo Bek Andersen – Courtesy Vito Schnabel

Come sei venuto in contatto con Vito Schnabel? Era già al corrente del fatto che stessi lavorando su questo specifico tema?
Conosco Vito da anni ed era da tempo, forse almeno da un anno, che discutevamo dell’ipotesi di dar vita a un progetto comune. Quindi, no, non sapevamo in anticipo su quale tema avremmo lavorato. Inizialmente, l’intenzione era di organizzare una mostra a Los Angeles, poi per una serie di ragioni (per esempio: perché Los Angeles quando vivi e lavori a New York e organizzare una mostra nella città dove risiedi è decisamente più semplice? Una considerazione che può sembrare banale, ma che non lo è affatto quando si parla di mostre di questa importanza, anche se Los Angeles rimane indubbiamente un posto di grande fascino) abbiamo optato per New York. Quando in seguito abbiamo definito quello che sarebbe stato il tema della mostra, abbiamo capito definitivamente che l’opzione Los Angeles era assolutamente impraticabile: lì probabilmente le persone avrebbero letto il titolo, DSM-V, e avrebbero pensato a una mostra su un nuovo modello di automobile, una Lexus, o qualcosa del genere…

La mostra è stata ospitata al Farley Post Office, però nel comunicato stampa è indicato con il nome di Moynihan Post Office. Puoi parlarci di questo spazio espositivo? Si è adattato in maniera soddisfacente all’idea di esposizione che avevate?
Il Farley Post Office è un immenso palazzo in stile Beaux-Arts situato tra la Penn Station e il Madison Square Garden. Stiamo parlando di uno dei circondari più tetri di tutta Manhattan: brutto, sporco e, probabilmente, immune a qualsiasi processo di gentrificazione o di abbellimento (sebbene non abbia dubbi sul fatto che anche in quell’area sia possibile acquistare costosissimi appartamenti); credo sia davvero terribile abitare in un posto del genere! Da almeno dieci anni è in programma un piano per trasformare il Farley Post Office in una estensione della Pennsylvania Station (l’originale Penn Station, demolita e rimpiazzata da quel mostro architettonico che i newyorchesi conoscono bene, era stato costruito nello stesso stile del Farley Post Office: ci vedo una sorta di “giustizia” in tutto questo). A quanto pare, il tutto dovrebbe avvenire a breve: l’ufficio postale rimarrà chiuso probabilmente per altri dieci anni e diventerà un’appendice della stazione. È questo il motivo per cui nel materiale promozionale parliamo della “futura Moynihan Station” (questo sarà il nome della stazione, perché è stato il senatore Daniel Patrick Moynihan a promuovere, nel 1999, il progetto di creare un nuovo ingresso dal Farley Building). Ci era stato inoltre detto che le sale – un numero immenso di enormi sale, che ovviamente non abbiamo occupato interamente – erano inutilizzate da vent’anni. Non ho stentato a crederci, quando ho constatato lo stato di incredibile abbandono in cui versavano. Solo il primo piano dell’ufficio postale manteneva ancora un aspetto “rispettabile”, non aveva interamente perso quell’aria di edificio “governativo”: sopra, sale e sale di rovine e devastazione.

DSM-V (da sx: Sean Landers, Piero Manzoni, Dash Snow, Pablo Picasso, Julian Schnabel) - veduta della mostra presso il Farley Post Office, New York 2013 - photo Bek Andersen - Courtesy Vito Schnabel

DSM-V (da sx: Sean Landers, Piero Manzoni, Dash Snow, Pablo Picasso, Julian Schnabel) – veduta della mostra presso il Farley Post Office, New York 2013 – photo Bek Andersen – Courtesy Vito Schnabel

Il luogo ideale per una mostra sulla malattia mentale, dunque…
Esatto. È stato proprio lo stato di abbandono dell’edificio a convincerci che quello sarebbe stato il posto ideale per ospitare una mostra incentrata sulla “pazzia”. Non solo, negli Stati Uniti l’espressione “going postal” viene utilizzata come sinonimo di “andare fuori di testa, totalmente fuori di testa”: pensa a un impiegato che un giorno si presenta sul posto di lavoro dove si è recato quotidianamente per vent’anni della sua vita con una pistola e fa fuori venti persone. Probabilmente l’espressione deriva dal fatto che un gran numero di impiegati postali si è davvero comportato in questo modo: a pensarci bene, avremmo potuto intitolare la mostra semplicemente Post Office. Ad ogni modo, quello che ci interessava maggiormente era il carattere istituzionale dell’edificio, l’idea di un luogo istituzionale andato completamente in rovina, in totale stato di abbandono: la “pazzia” dell’istituzione.

Avete dovuto fare dei lavori specifici per rendere l’edificio agibile?
Sì, è servito tantissimo lavoro perché gli spazi – che non saranno mai più utilizzati: come ho già detto, stanno per essere demoliti – riuscissero a fare da scenario ideale per una mostra di arte contemporanea che presentava, tra l’altro, alcune opere di grande valore (avevamo un Picasso e Manzoni, oltre ad artisti più recenti). Non volevamo qualcosa in stile Times Square Show (1980), per quanto quella mostra sia stata assolutamente influente, volevamo che emergesse potente un senso di derelizione e che il tutto risultasse in un certo modo sinistro, e credo che siamo riusciti a ottenere questi risultati senza grandi sforzi. Più che una mostra è stata una vera e propria messa in scena, qualcosa di molto teatrale.

DSM-V (da sx: David Salle, The Bruce High Quality Foundation, Francesco Clemente, McDermott & McGough, Jean-Michel Basquiat) - veduta della mostra presso il Farley Post Office, New York 2013 - photo Bek Andersen - Courtesy Vito Schnabel

DSM-V (da sx: David Salle, The Bruce High Quality Foundation, Francesco Clemente, McDermott & McGough, Jean-Michel Basquiat) – veduta della mostra presso il Farley Post Office, New York 2013 – photo Bek Andersen – Courtesy Vito Schnabel

La mostra si è soffermata su “artisti le cui opere mettono in questioni le norme della percezione e del comportamento ordinari”. Puoi spiegarci cosa significa e dirci qualche parola sui criteri in base ai quali avete selezionato nomi e opere?
Alla base della scelta di alcune opere vi è una relazione piuttosto ovvia con il tema della mostra: per esempio Manu, di Sean Landers, un’opera che figurava anche nella sua Picasso (2000), una mostra che all’epoca fu derisa da persone che non conoscevano affatto il lavoro di Landers, quasi integralmente incentrato sui temi dell’ambizione, dell’ispirazione artistica e, dall’altro lato, su sentimenti quali disperazione, abiezione, perdita. Oppure l’autoritratto di Julian Schnabel: quello che doveva essere originariamente il ritratto commissionato da un collezionista ma che è in seguito diventato un grandioso, tragicomico, autoritratto, man mano che le richieste del committente si facevano, con il tempo, sempre più pressanti, fino a diventare decisamente fastidiose: quello che si ritrova ora è un Julian/Giuditta con in mano la testa di Olofrene. O, ancora, le panchine deformate di Dan Colen: la normalità che, attraverso un processo di “patologizzazione”, non è più tale. C’è poi un Manzoni, uno degli artisti “disturbati” che più preferisco. Di cosa si tratta? Di una lettera, sigillata. Lo spettatore vorrebbe ovviamente sapere cosa contiene l’involucro, ciò che c’è scritto nella lettera, cosa c’è all’interno, ma ovviamente non può perché, se aprisse la busta, danneggerebbe un’importante opera d’arte il cui tema, dunque, mi sembra essere il desiderio di conoscere e la sua inevitabile futilità: la frustrazione, una frustrazione che potrebbe essere la fonte di innumerevoli disturbi psichici. Altre opere invece si distaccano decisamente dal filo conduttore del titolo e del tema della mostra, e questo è senz’altro voluto. Per esempio, c’è molta arte astratta. È con l’arte astratta che immagino sia possibile raffigurare il mondo interno della mente e le sue tribolazioni. Ecco spiegata la scelta delle opere di Ron Gorchov e di Sergej Jensen o della tortuosa (e torturata) scultura di Oscar Tuazon. Quello che volevamo evitare accuratamente è che la mostra potesse risultare in qualche modo didascalica.

Vincenzo Santarcangelo

www.labont.it

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Vincenzo Santarcangelo

Vincenzo Santarcangelo

Vincenzo Santarcangelo insegna al Politecnico di Torino e allo IED di Milano. Membro del gruppo di ricerca LabOnt (Università di Torino), si occupa di estetica e di filosofia della percezione. È direttore artistico della rassegna musicale “Dal Segno al Suono”,…

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