Futuri possibili & nebulose immaginarie
Uno dei problemi più critici e urgenti dell’Italia contemporanea è quello di non saper percepire – e immaginare – il proprio futuro: il futuro è per noi, ormai da (troppo) tempo, una catastrofe che si avvicina, che precipita verso e su di noi. Senza nessun intervento e manovra da parte nostra. Nella costruzione di questo spazio-tempo non abbiamo ruolo alcuno, e non possiamo fare altro che assistere al suo dispiegarsi con un misto di confusione, smarrimento e timore paralizzante.
È questo il meccanismo che va in ogni modo disinnescato: un meccanismo che è penetrato a fondo nei nostri cervelli, nel nostro atteggiamento psichico, nella nostra predisposizione a interpretare, o a non interpretare, la realtà davanti e attorno a noi. Intanto, occorre fuoriuscire al più presto dalla corrosione-erosione nostalgica della percezione del tempo (del passato, e quindi del presente e del futuro): la nostalgia, essendo il consumo del passato, lo adegua alle condizioni del presente, accettandone dunque solo e soltanto gli elementi (oggetti, stili, attitudini mentali, produzioni, persino eventi) coerenti con il nostro tempo, ed escludendone inevitabilmente i fattori più disturbanti e perciò stesso più interessanti, perché sono quelli che avrebbero potuto portare a un altro presente. La nostalgia intende questo presente come l’unico possibile, e distorce il passato; la percezione storica valuta il presente come uno degli effetti, dei risultati che avrebbero potuto avere luogo. Tra l’altro, questa pratica percettiva ci induce regolarmente a pensare che tutto quello che ci capita di negativo e disorientante stia accadendo sempre per la prima volta: questo dipende dalla nostra impreparazione, e non dagli eventi in se stessi, dal momento che forse nessun Paese come il nostro ha la tendenza a ricadere sempre nelle stesse sequenze, ad abbandonarsi con voluttà ai medesimi cicli, a riappropriarsi secondo varianti minime di identici atteggiamenti di fondo (forse, quasi sicuramente anzi, proprio perché non abbiamo memoria del nostro stesso passato, recente e lontano: non conosciamo noi stessi così bene come pensiamo).
A questo effetto distorsivo va aggiunto un altro, ancora più potente. Esso è stato individuato in maniera geniale da Giulio Bollati nel saggio Il modo di vedere italiano (note su fotografia e storia, 1979), che ha posto come punto di partenza imprescindibile gli Anni Ottanta dell’Ottocento e un’inedita “collaborazione creativa” tra la Regina Margherita e Giosuè Carducci (fondamentali per più ragioni, come abbiamo già avuto modo di vedere: nel 1883 nasce infatti ufficialmente il Trasformismo): “Intorno alla [Regina Margherita]… la miglior cultura italiana costruì una nebulosa fantastico-ideologica (la prima di una serie, come diremo), più efficace di qualsiasi teoria, dottrina o predicazione, perché comprensiva di tutto l’indispensabile: le idee trascritte in sogno o avventura, le prescrizioni sociali presentate come i suadenti comandi che echeggiano nelle fiabe, la comunità nazionale descritta come un villaggio sovrastato da entità benefiche. L’intelligente trasposizione di ‘Pinocchio’ a simbolo del popolo italiano dei primi decenni dell’Unità, va completata riconoscendo nella Fata turchina la Regina bianca. […] Il ‘margheritismo’ fu il nostro vittorianesimo, più infantile, scolastico, più letterario e ‘romantico’, ma non meno esigente nel dirigere il costume: e altrettanto influente sulla visualizzazione, in forme dirette, traslate o tangenziali” (ne L’Italiano. Il carattere nazionale come storia e come invenzione, Einaudi, Torino 2011, pp. 160-161).
Ciò vuol dire che la società italiana, fin dalle sue origini postunitarie (e, molto probabilmente, fin da secoli addietro…) ha una spiccata tendenza a costruirsi bolle finzionali in cui rinchiudersi e adagiarsi comodamente, allontanandosi dalla realtà e dallo sguardo su di essa (un processo che coincide sempre con l’affidamento a un’identità collettiva immaginaria e fabbricata altrove: il mondo fatato che è l’altra faccia della classe di Cuore, che si tramuterà decenni dopo in un’antichità di cartapesta e nello Strapaese delle olografie ecc.): se, per dire, in Francia il naturalismo di Zola e il postnaturalismo di Maupassant e Huysmans sono sì componenti rivelatrici del contesto storico a cui appartengono, ma come componenti critiche, come funzioni perturbanti dell’intero dispositivo, qui da noi tradizionalmente l’immaginario culturale è il dispositivo. È, come osserva acutamente Bollati stesso, un “grembo materno”, ed è piuttosto difficile rintracciare una metafora più indicata a tradurre la condizione italiana nella storia culturale degli ultimi secoli: impermeabile alle influenze e agli stimoli esterni, autoconclusa (senza essere però autosufficiente). È una gigantesca bolla spazio-temporale, che si sorregge su alcune direttrici fondamentali, e che espelle da sé automaticamente e autoritariamente la critica, il “fuori”. Il che non vuol dire ovviamente che le posizioni e le espressioni “eretiche” non esistano: semplicemente, non divengono mai – né in diretta né in seguito – strutture portanti della società e della cultura nazionale, della nostra identità collettiva; rimangono sempre e comunque corpi estranei, a malapena tollerati quando non esplicitamente rimossi (basta pensare, giusto per fare l’esempio più lampante, a Pasolini).
Partendo da questo punto, è possibile riconoscere tutta una serie, una sequenza di queste nebulose, di queste bolle; esaminarne cioè l’intera genealogia: “Vorremmo ora attirare l’attenzione, nella stessa linea di interesse, sulla nebulosa D’Annunzio perché nessun’altra teoria dell’epoca o somma e combinazione di teorie può competere con essa in fatto di compiutezza e di efficacia mitologico-pratica. Questi addensamenti di materiali sovrastrutturali della più varia provenienza e qualità, fusi insieme a formare costellazioni del vivere individuale e collettivo, si susseguono regolarmente a partire dall’Unità. Alla carducciana (per definirla provvisoriamente), tiene ora dietro la dannunziana, cui seguirà la fascista e, forse, il conglomerato ‘cristiano’ del secondo dopoguerra; e c’è da chiedersi se non sia da cercare in questa direzione un tipo ideologico modulare, funzionale e necessario al particolare sviluppo italiano; tipo che potremmo definire formalmente a ‘grembo materno’, per indicarne il carattere isolante, protettivo, totalizzante e, all’occorrenza, autoritario” (ivi, pp. 172-173).
Per li rami si discende – l’avete già immaginato – all’ultima “bolla” italiana in ordine di tempo, quella in cui abbiamo vissuto nel corso degli ultimi trent’anni: troppo facile e troppo comodo chiamarla “berlusconiana”, troppo vago definirla “postmoderna”. Un altro nome andrà trovato per definire questo ennesimo habitat fatato, immateriale, fantasmagorico. Eppure così completo da aver dominato le nostre esistenze e le nostre scelte e le nostre visioni per un periodo così lungo.
Christian Caliandro
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati