I giovani leader, il trasformismo e la cancellazione del conflitto
I giovani leader italiani hanno un’età attorno ai quarant’anni. Usano un linguaggio inadatto, inadeguato al momento: obsoleto. Questo linguaggio condensa la loro ambizione, come adesione completa alle disposizioni delle generazioni precedenti. Li vedi intenti solo e unicamente a spartirsi le spoglie della nazione; gesticolano e si mettono in posa sopra l’Italia che si decompone, che marcisce; sono lì, hanno lavorato sgomitato scalciato tutto questo tempo, usando i metodi dei vecchi consunti, per arrivare esattamente dove si trovano ora. Mentre tutto crolla.
Dalla confusione, alzandosi, Ranaldi mise un piede
in fallo e dovette appoggiarsi alla colonna. Allora,
sotto la mano, sentì che la grave colonna sorreggente
l’arco solenne era di legno foderato di cartone.
Federico De Roberto, L’Imperio (1929)
Il pensiero che le strutture generali e collettive siano ormai ampiamente collassate, che il Paese sia diventato un paesaggio di spettri, non sembra infastidire i giovani leader italiani. (Forse sapevano che sarebbe accaduto?) Sono pronti. Affidabili.
Le parole del cambiamento sono svuotate di senso, nelle loro bocche. Non cambiano e non cambieranno nulla, perché la loro prospettiva è quella della dissoluzione dell’essiccazione dello sfaldamento di ciò che conosciamo. Di ciò che esiste. Il cambiamento richiede – esige – la ribellione. (Il cambiamento vuole modificare le condizioni e le precondizioni, discutere le premesse dell’esistente, riverberarsi in ogni dominio.)
Non hanno davvero molto fantasia, ma a che serve la fantasia, in un mondo che sembra aver completamente cancellato e rimosso l’elemento immaginativo, critico, conflittuale? Che cosa mai se ne farebbero? Sarebbe un inutile fardello comportamentale e concettuale: sarebbe un handicap. Sono ignoranti, di un’ignoranza spaventosa e quasi post-umana: ma anche la cultura è – sarebbe – un handicap. L’handicap maggiore, in effetti, in questo come in altri momenti della nostra vicenda collettiva. (Così come il coraggio, l’eresia, l’onore, la dignità, la responsabilità, la fermezza: tutti handicap?)
“Al centro di tutto il mio ragionamento, allora [1960] come oggi, c’è la persuasione che il conflitto costituisca ovunque e sempre la molla di una sana e dinamica dialettica sociale. Di più: dove non c’è conflitto, la politica deperisce, e persino le attività intellettuali smarriscono la strada della ricerca, che è anch’essa – in questo caso più indubitabilmente che altrove – conflittuale (la critica, infatti, non è che la forma di un conflitto). Ora, la mia tesi […] è che il mondo è avanzato in questi ultimi cinquant’anni, cercando ovunque e sempre l’attenuazione o la cancellazione del conflitto” (Alberto Asor Rosa, Le armi della critica. Scritti e saggi degli anni ruggenti 1960-1970, Einaudi 2011, pp. LXVII-LXVIII).
I giovani leader sono coerenti, estremamente coerenti con il contesto. Si sono formati nell’idea – si sono formati l’idea – di essere leader: leader che non guidano, leader per nomina, leader di dispositivi mediatici e informativi, leader senza seguito pubblico esercito, leader di schiere di fan adoranti e spettatori emotivi.
Si sono formati, mai trasformati. L’unica trasformazione che conoscono è la non-trasformazione del “trasformismo”. Il trasformismo per Depretis (esattamente 130 anni fa: il 19 maggio 1883 comincia infatti ufficialmente, con l’inaugurazione del suo quinto ministero) doveva portare, come puntualmente portò, all’annullamento totale delle differenze tra i partiti. Tra Destra e Sinistra: “Come la nascita del trasformismo fu piuttosto un giungere a maturazione, così la sua persistenza endemica e le sue riapparizioni con Crispi, Giolitti, Mussolini, fino alle inesauribili variazioni trasformistiche del secondo dopoguerra e al neotrasformismo dei nostri giorni, lo connotano come un elemento costitutivo della nostra storia e ne fanno un carattere italiano con profonde radici strutturali e culturali. [Il trasformismo depretisiano] nella sua naïveté rivela per un momento in piena luce il meccanismo politico in certa misura obbligato – da ben noti ritardi e sconnessioni della giovane nazione – del nostro esistere come paese moderno tra gli altri; e ci rende tangibile il rischio o la paura di essere messi fuori gara in ragione di una congenita fragilità strutturale, quella appunto che cerca compenso in continui espedienti compromissori, in una tendenza cronica a soluzioni organico-corporative, in ricorrenti tentazioni autoritarie. Il trasformismo può giustamente essere considerato, secondo una collaudata tesi giustificatoria, come un riflesso di difesa; purché non si renda di vista la sua inclinazione irresistibile a farsi abitudine, metodo, calcolo” (Giulio Bollati, Premessa a L’Italiano. Il carattere nazionale come storia e come invenzione, Einaudi 2011, pp. XXVI-XXVII).
Queste parole risalgono al 1983, data di pubblicazione della raccolta di saggi; ma potrebbero essere scritte tranquillamente oggi, e Dio sa quanto bisogno avremmo di questa lucidità.
E Federico De Roberto, come al solito, come e più che nei Viceré (1894), nell’incompiuto eppure definitissimo, cristallino L’Imperio (1893-1927) – il romanzo della disfatta definitiva, del fallimento, della disillusione, e della consapevolezza estrema che ne deriva, che solo dalla caduta può derivare – aveva capito tutto, tutto afferrato e catturato amaramente: “Di quale partito, di quali uomini fidarsi? Tutti gl’idoli che egli [Ranaldi] aveva venerati avevano rivelato le loro magagne, in tutti aveva trovato presunzione, ignoranza, vanità, intransigenza, difetti e vizii insanabili. Egli rideva della sua antica ricerca d’un uomo capace di salvare la nazione: nessuno poteva nulla salvare. L’Italia, e come ogni altro paese del mondo, e il mondo intero, erano stati salvati e perduti, e risalvati e riperduti, per fatalità inevitabili, secondo leggi ignote. Né l’apparente salvazione era realmente uno stato prospero e felice, né quella che si giudicava rovina era veramente tale” (L’Imperio, Rizzoli 2009, pp. 280-281).
Christian Caliandro
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