Il problema della ricezione (VI): la trilogia “altra” degli U2 (1993-1997)
“Zooropa” (1992), “Passengers–Original Soundtracks 1” (1995), “Pop” (1997): tre dischi che sono stati parzialmente rinnegati, disconosciuti dalla band che li ha prodotti. E che - all’epoca della loro uscita, e ancor di più forse oggi - appaiono tra i più interessanti della loro intera opera.
La faccenda inizia quando gli U2 portano a piena maturazione l’interessantissimo lavoro di collaborazione sulla produzione dei suoni con Brian Eno (e il musicista-ingegnere del suono Daniel Lanois). Un lavoro molto raffinato e sofisticato che comincia quasi in sordina con The Unforgettable Fire (1984), prosegue soprattutto con The Joshua Tree (1987) ed esplode con Achtung Baby (1990), una sorta di riedizione/condensazione in chiave pop e post-riunificazione della famosa trilogia berlinese di David Bowie (1977-79), in cui sempre c’era lo zampino di Brian Eno, in quel caso insieme al geniale chitarrista e compositore Robert Fripp.
Ora, che cosa succede con Zooropa? Possiamo immaginare l’album integralmente come una sorta di spin-off di Achtung Baby: a livello di contenuti, di immagini, di visioni è una concrezione di quegli stimoli e di quel tour (il leggendario Zoo TV), e viene infatti registrato velocemente tra una data e l’altra. L’aspetto importante e interessante è che all’inizio era concepito un EP, solo in seguito trasformatosi in LP: questo elemento di provvisorietà, di precarietà informa tutto il disco, che infatti sarà sempre considerato dalla band come una sorta di “interludio”, un’opera di passaggio. Anche un po’ spuria. Ed è proprio questo che ha sempre reso Zooropa così interessante: al tempo stesso cerebrale e immediato, sperimentale e punk, questo disco è un sogno degli U2, una loro proiezione immaginaria, la materializzazione dell’altro da sé.
I brani sono tutti secchi, molto destrutturati: certo, non mancano le ballad come Stay e The First Time, ma c’è sempre in quasi tutte le canzoni una sorta di “demone dell’essenzialità”, un’identità sottile e sfuggente che sta a metà strada tra il cyberpunk e l’onirico, tra lo stralunato e l’elettronica spinta. Zooropa è contradditorio, ambivalente, radicale e pop, impegnato e disincantato come il progetto europeista a cui fa riferimento (allora molto diverso da ciò che sarebbe divenuto esattamente vent’anni dopo): brani come quello che dà il titolo all’opera, Lemon, Numb, Some days are better than others costruiscono un basso continuo che percuote un tessuto ambient e che raccoglie una tensione fondamentale. Evocano possibilità inedite: paesaggi atomici, in cui la voce di Johnny Cash vibra su uno sfondo acidissimo e violaceo (The Wanderer).
Gli U2 continuano a sognare, e a realizzare, degli “altri se stessi” nel disco talmente oscuro da far cambiare addirittura temporaneamente nome agli stessi U2: i Passengers sono infatti loro “più” Brian Eno, che si è ormai guadagnato un posto in squadra alterando notevolmente equilibri e strutture consolidate. Significative appaiono a questo proposito le parole del membro in assoluto più solido e “squadrato”, e di certo il più lontano dalle sperimentazioni e dalle elucubrazioni intellettuali, il batterista Larry Mullen: “There’s a thin line between interesting music and self-indulgence. We crossed it on the Passengers record”. Ma siamo proprio sicuri che la linea separasse la “musica interessante” dall’“autoindulgenza”, e non – per esempio – la musica interessante da quella molto interessante? Original Soundtracks 1 è certamente un disco spartiacque, ma anche per molti versi seminale: debitore a sua volta delle Music for Films dell’Eno Anni Settanta, costituiscono un album sorprendente nella sua compattezza, e nella sua capacità di disegnare un’identità musicale al tempo stesso fragile, sospesa, eterea e precisa. United Colours, Lug, Always Forever Now, A different kind of blue, One minute warning, Theme from The Swan, Theme from Let’s go: queste colonne sonore inventate per film mai esistiti (ma che poi, almeno in alcuni casi, troveranno collocazione in capolavori cinematografici Anni Novanta, in grado di coglierne la novità “atmosferica” : basti pensare a Heat di Michael Mann) rappresentano un vero unicum nella musica degli ultimi venti anni.
Nel 1997, gli U2 non contenti portano avanti decisamente la propria trasformazione immaginaria, questa volta senza Eno ma accompagnati da una moltitudine di produttori ancora più legati all’elettronica: Nellee Hooper, Flood, Howie B, Steve Osborne. Pop è il vero punto di rottura, il culmine di un discorso anche culturale, di una critica al mainstream. In grado di recuperare per esempio, ironicamente e seriamente, il concetto di “devoluzione” elaborato dai Devo), e di dar vita a un gioco di specchi riflessioni rovesciamenti davvero vertiginoso per l’epoca. Eppure, anche in questo caso, il gruppo è assolutamente insoddisfatto del risultato del disco, licenziato in breve tempo per la fretta di avviare quello che sarebbe diventato il leggendario PopMart Tour. Bono disse all’epoca che l’album “non comunicava esattamente nel modo in cui volevamo”: “It’s not enough to write a great lyric; it’s not enough to have a good idea or a great hook, lots of things have to come together and then you have to have the ability to discipline and screen. We should give this album to a re-mixer, go back to what was originally intended”. È interessante questo rifiuto che ha luogo regolarmente “in diretta” rispetto alla propria opera, quasi un tirarsi indietro rispetto alla propria intenzione sperimentale. “Dovremmo darlo a un remixer” vuol dire: dovremmo affidarlo a qualcuno che normalizzi ciò che abbiamo fatto, osato; a qualcuno che gli dia una sistemata e lo faccia suonare come un vero disco rock; e questo desiderio prende corpo, non a caso, al momento della ricezione. Quando cioè si scopre che il gusto del pubblico – pubblico di massa – non incontra il gusto cercato e in gran parte creato da questi tre oggetti. D’altra parte, Pop è sempre stato bellissimo così com’è: con tutte le sue imperfezioni, con tutti i suoi squilibri (grazie ai suoi squilibri), e con tutte le sue aperture, con le sue opzioni e con le sue opportunità di scoperta.
È questa la caratteristica principale di questa trilogia “altra”, alternativa, estranea: la capacità di disegnare strategie intraviste attraverso smagliature, crepe, interstizi del proprio percorso. Prendendo e seguendo ogni volta non la strada principale, quella molto attesa e in fondo prevedibile, ma la via più laterale, quasi invisibile a occhio nudo. La sfida al pubblico non è stata raccolta; l’annuncio è rimasto senza seguito.
(Dopo, subito dopo, non ci sarà quasi più spazio per questo, per l’inedito, per la scoperta, per l’autoironia, per l’esplorazione e per la sperimentazione: dopo gli U2 si rimetteranno alacremente al lavoro per ritornare a essere “la più grande band del mondo”, come amavano ripetere, sfornando All that you can’t leave behind, How to dismantle an atomic bomb e No line on the horizon.)
Christian Caliandro
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