L’alba relazionale
“Vieni più vicino, fa che ti veda, stiamo per creare insieme la prima frase collaborativa del mondo”. Questo l’incipit del lavoro di Douglas Davis che ha segnato l’inizio della sperimentazione del Whitney Museum verso la Net Art (il lavoro è del 1994) e la connessione della ricerca concettuale ai nuovi media.
Douglas Davis è stato uno degli sperimentatori radicali della tematica relazionale: suo il famoso lavoro sul dialogo fra artista e fruitore attraverso la televisione, dove si cerca di re-immaginare il rapporto elettronico fra l’interno e l’esterno dello schermo in fittizia e irreale intimità e contatto.
Davis ripropone la stessa strategia con la Rete, affrontando la distanza tecnologica e trasformandola in coinvolgimento, sharing e opera collettiva. L’idea del work in progress e della partecipazione è apparsa a Davis un passo ulteriore nel processo di superamento della separazione fra arte e pubblico e fra “people and media”. La Rete si propone all’inizio come l’ideale strumento per comunicare “peer to peer”. Il lavoro, bloccato alcuni anni dopo dall’obsolescenza dei software, è stato “restaurato” di recente dal settore Media del Whitney.
Felice evento che apre alcune problematiche: 1. l’obsolescenza e il ricambio dei software corrisponde non solo (o non più) all’irrefrenabile spinta dello sviluppo telematico, ma anche e soprattutto a logiche di consumo. Comprare un software o un hardware significa comprare ogni stagione un capo di Prada sempre uguale ma con sottili differenze. A quando la possibilità di proiettare nel tempo dei lavori condannati alla fragilità? 2. Cosa è diventato il progetto whitmaniano di Davis? Ha praticamente fondato il blog con le sue irrefrenabili e smisurate correnti di parole, idee, rumori di fondo, esibizionismi, protagonismi, manipolazioni, iterazioni, falsificazioni, confessioni… Un’esplosione partecipativa che supera ogni apertura Fluxus o concettuale per far saltare bordi e confini fra ruoli e culture, linguaggi e comunicazioni. Un Finnegan’s Wake impazzito.
Lontano nel tempo, il linguaggio utopico e lirico dei Sixties risulta intrigante rispetto al “cinismo squisito” del linguaggio d’arte odierno.
Lorenzo Taiuti
critico di arte e media
docente di architettura all’università la sapienza di roma
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #15
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