Umanità della città. Il nuovo ciclo di Gian Maria Tosatti
Dopo “Devozioni” e “Landscapes”, Gian Maria Tosatti propone, a Napoli, una nuova azione sulle maglie instabili della città. Un nuovo, avvincente ciclo riflessivo sulle “Sette stagioni dello spirito”. L’installazione prosegue fino a fine novembre.
Luminoso, avvolgente, coinvolgente. Il nuovo ciclo riflessivo messo in campo da Gian Maria Tosatti (Roma, 1980) per attraversare Napoli propone una latitudine estetica che rivisita e recupera il panorama culturale della città mediante una metodologia camaleontica volta a riorganizzare i brani della vita comune per concepire opere aperte, progetti versatili, performambienti che invitano lo spettatore a interrogarsi sulla natura della società e delle cose stesse.
La Peste, primo step di quest’ampia riflessione realizzata con il prezioso sostegno della Fondazione Morra e del Museo Archivio Laboratorio per le Arti Contemporanee Hermann Nitsch – con il Matronato del Madre e in collaborazione con una serie di istituzioni (Comune di Napoli, Vicariato della Cultura, Ordine degli Ingegneri, Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, Autorità Portuale) – prende il via con la riapertura della Chiesa dei SS. Cosma e Damiano, nella zona dei Banchi Nuovi, per dar vita a un’opera d’arte totale. A un’autopsia estetica che, se da una parte pone luce su problematiche scottanti e insite sulla trascuratezza dei territori, dall’altra vitalizza l’abbandono mediante un’azione, un intervento immaginifico energico e brillante.
Con le Sette stagioni dello spirito, ciclo a cura di Eugenio Viola, Tosatti (antropologo impegnato) entra così nel ventre della città per integrarsi, incuriosirsi, entusiasmarsi delle sue molteplici storie. Ma anche per comprenderne i volti segreti, per tessere un cammino sottile, per cucire, con l’ago dell’estetica, un indimenticabile racconto (è un peccato che La peste non sia permanente!) che inclina l’arte ai fragili, irrequieti e vibranti nuclei della quotidianità.
Vorrei partire dal tuo impegno sociale. Dall’impegno sociale dell’artista che si misura, attraverso gli strumenti dell’arte (e dell’immaginazione critica direi), con il transitorio, il fuggitivo, il contingente. Dell’artista che formula nuovi cont(r)atti tra l’arte e l’abitare, che scava nello spazio socio-antropologico, che elabora, attraverso l’arte appunto, un nuovo senso civico, un nuovo territorio di riflessione, un nuovo ambiente pedagogico. Da quale esigenza nasce questa tua attitudine che prende forma nel vivo della quotidianità?
L’arte è pratica della bellezza. E la bellezza dovrebbe essere uno strumento d’uso quotidiano, uno strumento che “salva” le nostre vite. La bellezza è una forza rivoluzionaria. La pratica dell’artista credo sia appunto quella di portare questa rivoluzione, portare la battaglia, come un capitano di ventura, di città in città. E per farlo bisogna che il fatto avvenga in strada, tra la gente, come una guerra civile, una guerra di civiltà. Sarebbe ben strano combattere una guerra nel ritiro dei musei o delle gallerie. Nel percorso che sto facendo con i miei colleghi de “La costruzione di una cosmologia”, mi sto rendendo conto che la peculiarità di questa generazione artistica è il concepirsi fortemente connessa con la società. E questo mi conforta, vuol dire che c’è ancora, in questo paese addormentato una forza capace di invertire la tendenza al decadimento, all’abbrutimento di cui già ci parlava Pasolini all’inizio degli Anni Settanta e che oggi è il tema stesso del mio primo lavoro napoletano.
La tua inclinazione metodologica è quella di realizzare ampi cicli tematici. Di concepire progetti e programmi che si dispiegano radicalmente (e non solo da un punto di vista temporale) nel mondo della vita e dei mille significati che la riguardano. Accanto ai dieci momenti di Devozioni (2005-2011) e alle varie stazioni di Landscapes (2006-2009), le Sette stagioni dello spirito, titolo del tuo nuovo ciclo immerso negli umori di Napoli, rappresenta un ulteriore scavo sul (e nel) tessuto di una città per rileggere la storia dell’uomo a partire dal suo habitat. Ma anche per costruire, mi pare, una ricognizione sulla cultura popolare di un determinato luogo, sugli usi e sui costumi di una civiltà sotterranea.
Studio le città perché esse sono i luoghi che l’uomo costruisce per potervi declinare tutte le sfaccettature della propria anima. Studiare la città, dunque, è come realizzare una spettrografia dell’identità umana. Per farlo però serve tempo. Molto. E soprattutto un’attitudine alla ricerca prima ancora che all’affermazione. Sono arrivato a Napoli come una tabula rasa. Ogni cosa che prende forma in questo ciclo è qualcosa che ho imparato qui. Ci sono città diverse che raccolgono comunità in cui alcuni temi sono più accentuati. Per questo ogni scelta è estremamente ponderata. Anche perché so che mi impegnerà per degli anni. Un processo di conoscenza e successivamente di condivisione di quella conoscenza richiede un superamento, una dialettica. Che non faccio solo io, facendomi invadere dalla cultura alta e popolare di un luogo, ma che la città stessa compie nel momento in cui restituisco come un’onda di ritorno, quell’intero patrimonio di conoscenza, messo in una precisa frequenza, in un ordine che è simile alla struttura atomica di una lama.
Le opere dei tuoi cicli richiamano alla memoria un libro della Repubblica in cui Platone è dell’avviso che prendersi cura dei luoghi significa offrire “un luogo salubre” al cittadino, significa prendersi cura dei suoi abitanti. Soltanto con “un soffio di vento che porta buona salute da luoghi benefici”, puntualizza Platone, è possibile realizzare un pascolo felice, far assimilare ai giovani (perno vivace del mondo) il rispetto per l’altro e per la cosa pubblica. Quale soffio di vento può effettivamente offrire l’arte, secondo te, per rigenerare i luoghi e per sensibilizzare chi vi abita?
Mi fa sorridere se citi Platone, perché ultimamente è molto presente nei miei pensieri. Specialmente la sua Apologia di Socrate, in cui il filosofo maestro inizia a impostare temi (ancora legati specialmente al concetto di coltivare la gioventù) che un Platone più maturo svilupperà nella Repubblica. Rispetto alla domanda, tuttavia, voglio rispondere nel concreto. Abbiamo aperto la chiesa dei SS. Cosma e Damiano senza dire a nessuno che lo facevamo con un intento artistico, abbiamo riaperto una porta chiusa dalla Seconda Guerra Mondiale, con un intervento tanto mimetico da essere quasi irriconoscibile. Lo abbiamo fatto al centro di un quartiere difficile, in una piazza trasformata in campo di calcio, completamente vandalizzata, in cui la violenza è il modo in cui ci si relaziona e dove i ragazzi (i giovani di cui parlano Socrate e Platone) sono arrivati addirittura a sradicare gli alberi. Come estrema provocazione in un luogo completamente coperto di graffiti abbiamo dipinto l’enorme portale, precedentemente pieno di tag, con la cera bianca. Ne abbiamo fatto un’immagine di fragilità e bellezza posta nell’occhio di un ciclone. Tutti ci avevano detto che certamente già dalla notte seguente quel grande “foglio bianco” sarebbe stato la superficie perfetta per far sfogare i writer e ogni genere di vandalo. E, invece, da quasi due mesi, il portale bianco, di cera, è ancora lì, intoccato. Il caos attorno si è ordinato attorno ad esso. Ha deciso di proteggere quell’intervento e l’opera all’interno, che è decisamente vulnerabile, che può essere distrutta in ogni momento e forse deve esserlo se qualcuno crede che sia giusto farlo. Ma, invece, l’atteggiamento delle persone nella piazza è cambiato. La ferocia ferita dei ragazzi di strada ha modificato la sua traiettoria (auto)distruttiva di qualche grado, abbastanza per invertire la propria tendenza alla devastazione. E voglio essere chiaro. Non abbiamo fatto laboratori, incontri, ammaestramenti che non avrebbero mai funzionato. Non abbiamo speso una parola. Abbiamo solo esposto l’opera a tutti i venti. E i venti invece di sbranarla hanno iniziato a danzare.
I tuoi progetti sono performance capovolte che fanno ridere verde lo spettatore suggerirebbe Antonin Artaud. Sono estroflessioni estetiche dell’attore. Sono luoghi attraverso i quali il corpo dell’artista viene decentrato per favorire una forma di vaporizzazione (Baudelaire) utile a creare atmosfere riflessive, vere e proprie esperienze emozionali che invitano il pubblico ad una serie di pensieri personali e passionali.
Ho conosciuto a fondo e pagato, biograficamente, a caro prezzo quello che Thomas Richards ha definito il punto limite della performance. È in questo mondo che ho compiuto il mio apprendistato. Poi ho cercato di rovesciare la prospettiva. Di fare del visitatore un performer e, ancor di più, di far sì che il mio artefatto fosse solo un macchinario, capace di portare l’opera dentro il visitatore, non solo come impressione, ma come processo, non come qualcosa che si riceve, ma come qualcosa che si esperisce e che quindi diventa tessuto inscindibile dalla propria stessa identità. Non sarebbe errato, quindi, dire che il mio lavoro non consiste nel fare opere, ma nel farle generare da ogni individuo.
Con le Sette stagioni dello spirito siamo, ora, in un nuovo confronto con la reale realtà, con i nuclei fragili della vita. Perché hai scelto Napoli e qual è stata la tua predisposizione ad accogliere le varie anime della città?
Il tema che affronto qui è un tema enorme: i limiti del bene e del male nell’uomo. Stavolta una città non poteva bastare. C’era bisogno di un mondo intero. E Napoli è un mondo intero. E la sua specificità è anche quell’atemporalità che tiene in sospensione l’intero corso della sua storia. A Napoli convivono la Magna Grecia, il Seicento e l’oggi, non nell’architettura, ma nella gente. Tutto pulsante davanti ai nostri occhi, come in un unico presente complesso.
Il castello interiore (1577) di Teresa d’Avila fa da viatico a questo tuo discorso che hai deciso di dilazionare in sette mansioni, in sette compiti utili a scandire, appunto, le Sette stagioni dello spirito. Ti andrebbe di delineare, in linea di massima, i sette punti cardinali che stai seguendo?
È una domanda difficile quella che mi poni. Semplicemente perché, come ti ho detto, il mio è un percorso di conoscenza che procede progressivamente. Non ne so ancora molto di questo ciclo. Sono al primo passo, inizio solo ora a progettare il secondo e ad intravedere il terzo. Per ora sono certo che saranno sette tappe, ma che sono come i sette capitoli di un unico romanzo o di un saggio filosofico. Sette passaggi di un argomentare coerente, sette movimenti di un’unica sinfonia per città e popolazione. Sarà un’ascensione. Abbiamo iniziato questo viaggio nelle stagioni dello spirito iniziando da quello che è lo stato attuale delle cose, dalla peste, dalla malattia che ha ucciso la coscienza della mia generazione. Ora inizieremo a salire.
La peste, primo step di questo ciclo, pone al centro della riflessione un flagello divino, un fantasma scottante che incute timore. Perché hai pensato di partire dalla peste e di cosa è metafora, nel tuo lavoro, questo male che affonda le radici nel tessuto archetipico dell’immaginario popolare?
La peste prima che una malattia è la grande metafora di un male dell’anima che uccide intere generazioni. L’hanno usata in molti, l’ultimo è stato forse Camus che ne ha fatto un’analogia del nazismo, che uccise, negli Anni Trenta del secolo scorso, l’anima di un’intera generazione, rendendo così possibili le successive uccisioni fisiche di milioni di esseri umani. Oggi la mia è una generazione di anime morte. L’inconsapevolezza dei miei contemporanei non ha pari nella storia recente. Ecco cos’è la peste. Questo essere meno che umani, questo essere addormentati. Ma appunto, anche se parto da un dato attuale, questo lavoro si inserisce in una logica atemporale, quella di cicli e latenze che appartengono all’uomo e che a volte restano dormienti altre emergono. Questo non è un lavoro sul presente. È un lavoro sulla struttura dell’uomo e la peste è una stagione del suo spirito, una febbre che nella Storia non può far altro che tornare.
Cosa ti ha spinto a scegliere la Chiesa dei SS. Cosma e Damiano, a Largo dei Banchi Nuovi?
Perché questa chiesa è al centro dell’inferno. Perché tutt’intorno è il luogo della peste. Ho passato giornate seduto in Largo Banchi Nuovi. È standomene lì che la parola “peste” ha iniziato a balernarmi in testa, innescando la reazione a catena che ne è seguita. Ma oggi, se rivedessi quella piazza e quel quartiere per la prima volta sono sicuro che avrei un’impressione diversa. Il portale bianco è una testimonianza che la peste c’è ancora, ma che le difese stanno tenendo.
Hai già individuato i prossimi luoghi, le prossime stazioni del progetto, le prossime stagioni dello spirito?
Continuo a lavorare duramente per trovare i luoghi giusti e per poterli rendere attraversabili e in questo devo ringraziare l’Ordine degli Ingegneri della Provincia di Napoli che si occupa della messa in sicurezza dei luoghi di questo progetto e la II Municipalità del Comune di Napoli che ci aiuta a navigare nel mare torbido della burocrazia, o partners come la Curia di Napoli che ci ha messo a disposizione spazi con l’intenzione di rinsaldare un rapporto storico di dialogo con l’arte contemporanea. Per ora sono due gli spazi su cui abbiamo iniziato un processo di progettazione. Ma verranno svelati a tempo debito. O non svelati, chissà… D’altra parte anche questo primo intervento è stato aperto ai passanti senza che ne avessimo dato comunicazione pubblica.
Ti andrebbe di indicare alcuni dei titoli scelti per le prossime mansioni estetiche, per i prossimi attraversamenti nei labirinti della vita, per le prossime riflessioni sulla società e sull’animo umano?
So che la seconda stagione dello spirito sarà l’Estate. Anche qui, come per la Peste sarà da intendersi come metafora di uno stato dell’anima.
Antonello Tolve
Napoli // fino al 30 novembre 2013
Gian Maria Tosatti – La Peste
a cura di Eugenio Viola
Chiesa dei Santi Cosma e Damiano
Largo dei Banchi Nuovi
081 5641655
[email protected]
www.fondazionemorra.org
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