Al microfono, Tim Davis. È lui il fotografo della Commissione Roma 2013
In occasione del Festival Internazionale di Fotografia, Tim Davis ha presentato al Macro “Quinto Quarto”. L’esposizione in cinque atti deve il titolo allo scarto della vendita dell’ex Mattatoio al Testaccio. L’americano a Roma investiga gli aspetti formali della fotografia, senza trascurare l’analisi contemporanea che essa testimonia: uno sguardo all'iconografia culturale corrente, nel tentativo di vedere ciò che in teoria non si dovrebbe. Ecco il nuovo paradigma sulla Città Eterna, documentata da svastiche, peni e prostitute, di cui Tim Davis parla in questa intervista.
Come ti sei approcciato alla fotografia?
Mio padre, quando vivevamo in Malawi, dove sono nato, faceva bellissime foto che appendeva in giro per casa. Aveva anche una piccola camera oscura accanto alla nostra cucina: l’odore del fissatore accompagnava i nostri pasti. È stato del tutto logico che io seguissi le sue orme. Ricordo però che la prima volta che ho fatto delle foto da solo (avevo circa 7 anni) sono rimasto deluso del risultato. Quindi il fallimento mi è familiare.
La tua visione concettuale da cosa è stata influenzata? In un’intervista hai parlato di Harry Callahan.
Harry Callahan è stato il primo fotografo che ho davvero ammirato per la luce che infondeva ai suoi soggetti. Callahan potrebbe realizzare un’emozionante immagine di sua moglie lasciando che la fotocamera parli dei suoi sentimenti. Aveva una particolare sensibilità, piuttosto che uno stile. Al college ho poi studiato con Stephen Shore e Larry Fink. Mi hanno influenzato entrambi: Stephen per la serietà e la potenza dell’immagine, Larry per la natura selvaggia del sentimento e il senso sia di celebrazione che di critica.
Ho letto che per te la fotografia è un problema da risolvere. Questo è il senso del tuo lavoro?
Sono partito da un’idea di Stephen Shore, considerando la fotografia come uno strumento analitico più che sintetico. Il fotografo è l’artefice di una scelta tra un numero infinito di possibilità. Penso che mi appartengano sia il bisogno di affrontare così tante informazioni in un unico momento, sia l’energia e la concentrazione richieste. Sono stato un poeta per molti anni, ma la disciplina della scrittura è sempre stata molto dura per la mia psiche, mentre io amo far accadere le cose e quando sto fotografando risolvo tutti i problemi visivi e concettuali dell’immagine in ciò che “succede ora”. Questo mi fa sentire un domatore di leoni.
Ti piace cogliere quello che gli altri non vedono?
Ho la capacità di sbirciare oltre le barriere impermeabili che la maggior parte delle persone assume. Non sto parlando della visione a raggi X di Superman, ma di una specie di abilità che mi permette di guardare dentro e intorno ai significati percepiti delle cose. Il lavoro dei fotografi ricorda che c’è una quantità infinita di senso nel mondo, anche se tutti passano le giornate a guardare uno schermo.
Quinto Quarto parla di una Roma di quartiere, lontana dall’edulcorata immagine da cartolina turistica. Perché raccontare queste forme di micro-degrado?
Io non vedo il degrado, ma solo un altro livello di storia. Ricordo che Amiri Baraka, nel guardare le pareti di una nuova aula universitaria, durante una lettura di poesie affermò: “Questo edificio è ignorante. Non c’è nulla sui muri“. In fondo, gli antichi romani hanno scritto la storia e così cercano di fare oggi i loro eredi. Il mio intento voleva essere provocatorio: pensavo di scandalizzare con i divieti di foto rubati dalle chiese e nell’aver reso arte la realtà di prostitute immigrate o il video di mille svastiche. Invece la gente sembra trarne un piacere sottile.
Gianfranco Rosi con Sacro Gra, vincitore del Leone d’Oro a Venezia, ha portato sullo schermo un dramma intimista stemperato da tratti grotteschi e caricaturali. Concordi che ci sia un legame tematico con la tua documentazione fotografica?
Ho potuto vedere solo alcuni pezzi online, ma già lo amo. In Sacro Gra Rosi ha utilizzato un medium HD alla maniera di Caravaggio per descrivere un mondo triste e sublime vissuto ai margini. Un vero capolavoro! Io ho realizzato il mio progetto da straniero, ma credo che sia in intimità con i significati che ho colto della città. Va considerato che ho fatto tutto furtivamente senza aver parlato con molta gente. Invidio Rosi appunto per l’intimità con i suoi soggetti. Mi piacerebbe incontrarlo.
Avendo vissuto a Roma in momenti diversi della tua vita, hai notato cambiamenti? Quale pensi sia l’immagine simbolo della città?
Beh, credo che Roma sia piuttosto noiosa. Non ho alcun interesse nel turismo che domina il centro, e anche se mi attira la periferia è difficile accedervi. Per me è Napoli la capitale del Paese: l’ho fotografata per il mio libro The New Antiquity e ne sono rimasto folgorato. Una città con così tanta vita e stranamente più moderna di Roma, che, anche se ha più soldi ed è meglio organizzata, si sente ancora alla ricerca di un cuore perduto negli Anni Sessanta: quando Monica Vitti passeggiava per l’Eur ne L’eclisse, che per me rappresenta l’apice della cultura romana.
Parlaci della tua ultima pubblicazione.
Quinto Quarto, edito da Punctum a Roma, incapsula l’esposizione al Macro e rappresenta una nuova fase della mia carriera: un unico corpo monolitico che guarda alla fotografia come a una serie di pezzi, ovvero un progetto che è una installazione (video, teche, foto, un archivio segreto) senza fotografie tradizionalmente incorniciate e appese alle pareti. Ciò mi fa sentire più come uno scultore che un fotografo. Questa edizione rispecchia piccole e intense indagini collegate tra loro come una raccolta di racconti, piuttosto che un romanzo. È bellissimo.
Rossella Della Vecchia
Roma // fino all’8 dicembre 2013
Tim Davis – Quinto Quarto
MACRO
Via Nizza 138
06 671070400
[email protected]
http://blog.fotografiafestival.it/
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