Architettura nuda #11. Giovanni Corbellini
“Se l’architettura si spoglia, è per bisogno di riduzione o per smania di seduzione?”: è ciò che si chiede Corbellini nel suo scritto. Parte dal frivolo per arrivare al filosofico mettendo in relazione il discorso sulla nudità con l’attuale contrasto tra il cosiddetto “nuovo realismo”, con il suo appello alla nuda realtà, e il pensiero debole post-moderno per arrivare ai “nuovi puritani” dell’architettura italiana che fanno riferimento alla rivista Sanrocco. Una nuova puntata della serie “Architettura nuda”.
Sarà che con l’età si tende a rimbambire ma appena ho sentito dell’ultimo libro di Valerio Mosco mi è venuto in mente Il monello, un giornaletto molto diffuso negli Anni Settanta. Tra fumetti tutt’altro che memorabili c’era sempre una pagina di piccoli annunci commerciali il cui pezzo forte erano gli occhiali a raggi x. Quegli improbabili dispositivi che promettevano di rivelare le bellezze celate sotto i vestiti delle compagne di classe hanno alimentato diffuse fantasie adolescenziali, e i loro riverberi senili, almeno fino a quando gli attentati alle torri gemelle ne hanno reso plausibile una versione funzionante (purtroppo né portatile né economica e dagli esiti tutt’altro che sexy…).
Naturalmente si tratta del riaffiorare di pruriti del tutto personali. Conoscendo Mosco e la sua serietà di studioso sapevo che avrei dovuto aspettarmi qualcosa di molto più austero. E in effetti tanto il suo approfondito saggio introduttivo quanto i molti, interessanti progetti raccolti nel volume indagano l’idea di nudità come simbolo e condizione di purezza, come tensione a una architettura completamente slegata da necessità e desideri, e quindi capace di esprimere la sua essenza più autentica (altro che fumetti: qui si parla di Kant, di Agamben…). I progetti presentati tendono quindi a essere nudi come gli atleti filmati da Leni Riefenstahl (corpi modellati da uno scopo tanto preciso quanto ludico, velleitario) o come gli indigeni di tribù tropicali che non hanno mai avuto bisogno di vestirsi. Una doppia condizione che corrisponde a grandi linee alla suddivisione maggiore proposta da Mosco tra nudità “bianca” e “grigia”, tra una architettura alla ricerca di una sua autonoma verità e pratiche progettuali la cui essenzialità è dovuta alla scarsità di risorse. Insomma, si tratta di edifici che stanno nudi perché possono permetterselo (estetista, lampade, palestra…) o per il fatto che non si possono permettere i vestiti… Il tutto risulta paradossalmente molto pulito, morale, asessuato, persino pudico.
Si può riconoscere in questo focalizzarsi sull’oggettualità dell’architettura, sulla sua evoluzione letta esclusivamente nell’interiorità autoreferenziale della forma, l’attenzione ad alcuni temi del dibattito italiano recente, dentro e fuori la disciplina, che hanno guadagnato una certa risonanza internazionale. Da un lato la questione del “realismo” così come è stata proposta in ambito filosofico da Maurizio Ferraris: un richiamo alla “cosità” del reale contrapposta al delirio interpretativo postmoderno del “pensiero debole” e al suo relativismo (se mi passate la sintesi estrema e, temo, infedele di qualche decina di articoli che si sono alternati lo scorso anno sulle pagine di La repubblica). Dall’altro la corrente neopuritana della giovane architettura italiana, promossa da Pier Vittorio Aureli attraverso espliciti richiami all’“autonomia” e all’“assoluto” e dal gruppo riunitosi intorno a San Rocco, rivista la cui testata ricorda significativamente il concorso per l’omonimo luogo monzese cui parteciparono insieme Grassi e Rossi.
Eppure la metafora adamitica porterebbe verso territori meno asettici: sporchi, erotici, perturbanti, sommamente impuri, negoziali, compromissori…
Gli stessi protagonisti analizzati da Mosco nel suo excursus storico della nudità architettonica offrono infatti, a chi indossa gli analoghi critici degli occhiali a raggi x del “monello”, un loro intrigante lato oscuro. Ledoux ha sì immaginato la nudità apollinea della sfera per la sua casa delle guardie campestri, ma anche progettato oltremodo dionisiaci cazzoni per un bordello a Montmartre e per l’Oikéma, edificio destinato all’iniziazione erotica dei giovani nella città ideale di Chaux. Loos, imprigionato per pedofilia, più che spogliare i suoi edifici celava dietro le pubbliche virtù di una maschera “urbana” di intonaco bianco i vizi privati della Finis Austriae: il Raumplan, messo sul lettino di Freud da Beatriz Colomina, rivela infatti i complessi giochi di sguardi, di dominazione e controllo della borghesia viennese di inizio Novecento e dei suoi ruoli di genere. Mies, per denudare la struttura e l’articolazione distributiva di casa Farnsworth, ha svestito Miss Farnsworth. Koolhaas, aspirante sceneggiatore per Russ Meyer (“poeta” cinematografico delle super maggiorate) e autore con Rene Daalder di The White Slave (escursione nel luoghi topici del b-movie), ha fatto del sesso e delle sue rappresentazioni potenti strumenti di riflessione architettonica: la Très Grande Bibliothèque viene introdotta in S, m, l, xl da una fellatio censurata che rende immediatamente esplicita la “strategia del vuoto” alla base del progetto (la sottrazione accelera l’erotismo) e lo stesso immaginario produce gli straordinari disegni e modelli, vere “radiografie porno”, che ne descrivono l’articolazione. E persino i recenti tempi di crisi, se seguiamo Sylvia Lavin nella sua Kissing Architecture, sembrano promettere corpi architettonici felicemente avvinghiati…
Caro Valerio, se l’architettura si spoglia, è per bisogno di riduzione o per smania di seduzione?
Giovanni Corbellini
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati