Arthur C. Danto, filosofo e critico
Accade raramente di dire, quando qualcuno ci lascia, che è stato un intellettuale dal profilo completo, che ha elaborato un pensiero importante per più d’una comunità scientifica. Arthur Danto, scomparso il 25 ottobre 2013 a New York, rientra certamente in questa ristretta élite. Il ricordo di Tiziana Andina.
Per quanto in Italia non se ne abbia sempre una consapevolezza completa, Arthur C. Danto è stato prima di tutto un filosofo analitico. Come sa bene chiunque conosca un po’ di filosofia, in genere gli analitici sono poco interessati e sensibili all’arte. E, in effetti, se consideriamo che il pensiero analitico, secondo tradizione, ha a che fare prima di tutto con la logica, mentre l’arte, secondo quanto per esempio è stato tramandato da Platone e Aristotele, avrebbe a che vedere in prima battuta con le emozioni, il pregiudizio dovrebbe trovare conferma anche in questo caso. E invece il lavoro di Danto, che peraltro ha sempre mostrato intelligenza e attenzione particolari nello smontare i pregiudizi, è l’esatta dimostrazione del contrario, cioè anzitutto del fatto che la logica non è poi così distante dalle nostre emozioni e che l’arte ha a che fare con la sfera dei significati, oltre che, come siamo portati a pensare, con le emozioni e con le proprietà estetiche.
Prima che studioso di filosofia, Danto era stato pittore, con una carriera promettente che decide di abbandonare dopo aver vinto il dottorato alla Columbia University. Probabilmente non è dunque un caso che sia stato proprio un filosofo analitico, con una particolare sensibilità e conoscenza delle arti, a rendersi conto di quello che parrebbe essere un dettaglio, ma che è invece un punto estremamente significativo nel lavoro di comprensione teorica dell’arte. Come ci insegna il suo libro più importante (La trasfigurazione del banale, Laterza 2008), le opere d’arte sono qualcosa di molto simile alle parole. Il filosofo Ludwig Wittgenstein, nel Tractatus, aveva considerato le parole e gli enunciati simili alle immagini e per questo capaci di catturare i fatti della realtà. Danto, percorrendo una linea teorica per molti versi simile, si ispira alla riflessione wittgensteiniana e suggerisce di trattare le opere d’arte come specie di parole, cioè come veicoli che incorporano significati (embodied meanings) che, a loro volta, sono a proposito di qualcosa (aboutness).
La strategia teorica è in fondo semplice: per comprendere l’essenza di ciò che è arte, operazione che si è resa necessaria dopo che la variegata famiglia dei ready made ha preso a insediarsi con pervicacia nei musei di tutto il mondo, è necessario sospendere la tradizione. Essa interpretava l’arte come una rappresentazione a carattere imitativo della realtà, un suo duplicato, a volte rozzo e a volte ricco di maestria. Fatto questo, ci possiamo domandare che cosa distingue un’opera d’arte da un oggetto ordinario, se il caso vuole che l’opera e l’oggetto esibiscano le stesse identiche proprietà.
Qualcosa li distingue, ma se vogliamo davvero comprendere di che cosa si tratta dobbiamo muoverci nella sfera dei significati piuttosto che in quella delle proprietà sensibili e percettive delle opere. In altre parole, dobbiamo mettere per un attimo da parte la nostra predisposizione a cogliere la bellezza (L’abuso della bellezza, Postmedia 2008) e considerarla piuttosto un valore che appartiene alla sfera della biologia e della vita invece che a quella dell’arte. La bellezza, come Danto non smetterà mai di scrivere, quando c’è, è nelle cose, e aver imparato a discriminarla ha favorito la nostra specie nella sua lotta per l’esistenza. Inoltre – come bene aveva visto Nietzsche – aggrappandoci alla bellezza più facilmente leniamo i dolori profondi. Tuttavia non è necessario che l’arte la esprima. Può prescinderne proprio perché non sempre vuole assumersi il compito di consolare, lenire, accompagnare. Ciò che l’arte proprio non può non fare è evitare di dirci delle cose; e più gli artisti si occuperanno di perseguire intenzionalmente questo obiettivo, più avranno bisogno della filosofia per completare il lavoro, visto che il medium, la corporeità dell’opera, ha limiti più cogenti di quelli del linguaggio (La destituzione filosofica dell’arte, Aesthetica, 2008; Dopo la fine dell’arte, Bruno Mondadori, 2008).
Certo, per capovolgere in questo modo l’interpretazione dell’arte, senza cedere alla tentazione di pensare alle avanguardie come a una burla della storia, bisognava non solo essere Arthur Danto, ma trovarsi a vivere nella New York degli Anni Sessanta del secolo scorso, amare l’arte come la vita e cercare costantemente la vita nell’arte. In una parola: bisognava essere un grande filosofo, per riuscire a diventare un critico d’arte.
Tiziana Andina
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #16
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