Dialoghi di Estetica. Parola a Roberto Gramiccia
Medico, giornalista e critico d’arte, Roberto Gramiccia è il nuovo protagonista della serie di dialoghi proposti dal LabOnt di Torino. Un dialogo che questa volta verte sul mondo dell’arte, le sue regole e il rapporto tra arte e realtà.
Nel suo libro Slot Art Machine lei scrive che della svendita dell’arte sia responsabile Duchamp e che, oggi, l’artworld coltiva “una certa separatezza tra arte e società”. Tuttavia oggi l’arte è un fenomeno globale e partecipativo. Non si tratta, piuttosto, di riconoscere la marcata aderenza dell’arte alla realtà sociale?
Per quanto riguarda Duchamp, il mio discorso è molto più articolato. Non penso affatto che sia l’unico artefice di ciò che oggi accade. Né sottovaluto la sua genialità. Duchamp, semmai, ha fornito involontariamente un alibi a coloro i quali oggi fanno affari con l’arte. Scrivo nel libro: “A Marcel Duchamp va attribuita la responsabilità obiettiva di aver facilitato il lavoro di questa corte dei miracoli”. Per “corte dei miracoli” intendo l’insieme delle figure, organizzate in sistema, che hanno a cuore i destini piuttosto che dell’arte del proprio portafoglio.
Per quanto riguarda l’idea che l’arte sia un fenomeno globale e partecipativo, sono su posizioni diverse. Naturalmente parlo in linea tendenziale, e non di singoli e lodevoli casi controcorrente. Per lo più l’arte contemporanea nulla ha a che vedere con la realtà sociale diffusa (specie in tempo di crisi). Semmai oggi, per come è conciata – tendenzialmente, ripeto –, cerca, con successo, di ritagliarsi una nicchia di mercato in un segmento molto piccolo e privilegiato della società. È questa la dura realtà. Aggiungo: non mi pare di vedere lunghe file di persone che aspettano di entrare nei musei d’arte contemporanea, almeno in Italia. Né mi sembra che l’editoria specializzata faccia grandi affari (vive piuttosto una delle crisi più drammatiche del nostro tempo recente). Non parliamo, poi, dell’abolizione dell’insegnamento della Storia dell’arte nelle scuole ecc. ecc.
Il mondo dell’arte – nel suo sistema di artisti, teorici, critici e curatori, regole istituzionali, riviste e pubblicazioni, spazi di produzione culturale (i musei) – non può essere valutato senza riflettere anche sulle logiche del capitalismo avanzato. Qual è la sua posizione in proposito?
Su questa cosa siamo d’accordo. Il capitalismo finanziario, inteso come sistema economico-politico-ideologico, è un potere totalizzante e ineludibile. Al centro del quale esiste solo la forma merce. La merce viene divinizzata e l’uomo risulta essere solo un funzionario di essa. E per questo che teorizzo la mercificazione dell’arte. E la dittatura della forma merce è la conseguenza inevitabile del monoteismo del mercato. Un mercato che, a sua volta, è l’espressione principe di un capitalismo ormai naturalizzato. Parafrasando Spinoza, un capitalismo sive natura.
Dall’orinatoio di Duchamp al gesto con cui Martin Creed accende e spegne la luce, ci troviamo a fare i conti, prima di tutto, con i nostri oggetti, le nostre azioni quotidiane. Con la realtà, le sue possibilità e i suoi limiti. Non sarà, forse, che si critica l’arte contemporanea proprio perché fin troppo aderente alla realtà mentre, invece, la desidereremmo sempre contigua alla finzione?
Io non critico l’arte. Semmai faccio il tifo per essa. Critico un sistema dell’arte, inteso come sottoinsieme dell’industria culturale, che tende a trasformare l’arte in una merce, anzi in una sotto-merce, fornita soltanto di valore di scambio in assenza di valore d’uso. L’arte non può non avere a che vedere con la realtà. L’arte è sempre realista. Anche quando si esprime nelle forme più aniconiche e concettuali. Ma è proprio questa sua connotazione ineludibile a essere oggi messa in discussione.
Se l’arte riesce a “porci di fronte al senso dei nostri limiti” (come lei nota, pensando alle opere di Kounellis) è anche perché ci sprona a riconoscere il primato delle proprietà materiali e oggettuali che la caratterizzano, i limiti oggettivi che ne conseguono e la possibilità di fare esperienze multisensoriali. Ha ancora senso usare il termine ‘arti visive’ per l’arte contemporanea?
Si comunica, dall’inizio dei tempi, con un linguaggio che è il frutto di convenzioni. In assenza di esse, comunicare è impossibile. ‘Arti visive’, pur con i suoi limiti, è appunto un’espressione convenzionale che, a mio giudizio, circoscrive un territorio e tiene lontani elementi di confusione con ciò che è “altro”: il teatro, il cinema, la pubblicità ecc. Molta della confusione che oggi esiste in questo settore dipende dalla dispersione di questa elementare distinzione.
Lei scrive che “il progressivo imporsi del concettualismo in arte e della tecnologia” creano i presupposti per una “semplificazione brutale”, una “desertificazione” del panorama creativo. Si tratta di uno svilimento formale che caratterizza anche le pratiche artistiche più recenti?
Non ho nulla contro la tecnologia, a condizione che sia trattata come un mezzo e non come un fine. E nemmeno contro l’arte concettuale, fin quando essa si dimostri tale. La “pura idea” per sostituire l’opera frutto di intenzionalità progettuale, forma, materia, colore, spazio e composizione, deve essere inarrivabile, sublime. Oggi di artisti concettuali sublimi ce ne sono pochi. Anzi pochissimi. Esiste semmai una schiera infinta di epigoni, intelligenze creative modeste ma intraprendenti e spregiudicate che credono – anche a ragione, visti i tempi che viviamo – di poter avere successo mescolando piccole idee con grandi alleanze che coinvolgono cordate di imprenditori, addetti ai lavori, sistema mediatico e sponde finanziarie.
Riflettendo su una crisi che investe la cultura, il gusto e le libertà – venute meno nell’arte attuale – lei prende le distanze dal Postmodernismo e si mostra favorevole alla prospettiva del Nuovo Realismo, elaborata dal filosofo Maurizio Ferraris. Come potrebbe essere conciliata tale prospettiva con le speculazioni teoriche sull’arte?
Io amo le idee forti e non il debolismo programmatico del Postmoderno. In questo senso rimpiango il Modernismo, anche se capisco che i tempi oggi richiedono altro. Non amo il relativismo teorico e non mi convince il fatto che non esistano fatti ma solo interpretazioni dei fatti. Continuo a voler annettere alla verità obiettiva un suo valore, a prescindere dalle interpretazioni.
Il Nuovo Realismo mi sembra interessante perché mette l’accento su questo aspetto e la cosa è utile in generale, anche per le questioni che riguardano l’arte. Quello che mi sento di aggiungere – e non mi pare poco – è la convinzione che il potere del trinomio mercato-tecnologia-comunicazione sia diventata una realtà fondamentale e dominante, senza più avversari. Una specie di nuovo e pagano “triangolo divino” che, oggi, si impone su tutto. E che ha dimostrato di saper interferire persino con la percezione diffusa della realtà. Tanto è vero che ha spesso trasformato e trasforma in complici persino le sue vittime. Purtroppo, il dominio di questo Leviatano del terzo millennio rischia, in assenza di alternative, di produrre – insieme ad altri disastri – un evento che in passato era stato solo teorizzato: la morte dell’arte. Proprio di questo si occuperà il mio prossimo libro.
Davide Dal Sasso
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