Festival di Roma: il genere autostradale colpisce ancora
Fine di un'altra avventura cinematografica. Probabilmente da domani vedremo sui display dell'autostrada uno strano annuncio, come è accaduto per Sacro Gra, e almeno tutti i viaggiatori automobilistici d'Italia sapranno chi ha vinto il Festival di Roma. Prepariamoci, perché dopo il filone culinario del fai-da-te seguirà quello autostradale del fai-da-tir, all'ultimo grido: sembra che ci sia un format in fase di elaborazione.
Al Festival del Film di Roma vince il Marc’Aurelio d’Oro Tir, documentario di finzione di Alberto Fasulo. E qui verrebbe da non aggiungere altro, lasciando che i fatti si commentino da soli. E invece no, perché in sala Sinopoli scrosciavano gli applausi di qualche claque e nessuno ci restava male per Spike Jonze: lui è americano, avrà chance agli Oscar, a Roma serviva per staccare biglietti, generare risse all’ingresso, far pubblicare centinaia di recensioni, critiche e commenti alla stampa. Meno male che, come ha ricordato Valerio De Paolis della Bim ritirando il premio per l’interpretazione vocale della Scarlett Johansson, Muller ha voluto il film a tutti i costi.
Ma neanche il direttore Muller, italiano rispettato in tutto il mondo per le sue capacità organizzative, creative e produttive, può niente contro la crisi e contro il potere di Roma, che vuole un festival nazionalpopolare, dove convivano pacificamente bambini delle elementari, adolescenti inferociti, matricole universitarie e pensionati inoccupati. Così, ecco la magia della fila unica senza settori preferenziali, tanto a che serve più la stampa se ci sono i tweet, il passaparola, facebook, hi5, pininterest e chi più ne ha più ne metta. Dall’anno prossimo potrebbero anche sopprimere la categoria stampa e lasciare un pass speciale solo per le grandi cariatidi della stampa cinematografica italiana.
Allora, dati alla mano, la media dei biglietti staccati sarà anche stata più alta rispetto all’anno scorso. La media. Se non si considera che le sale mezze vuote sono state compensate dai quattro americani, grazie ai loro interpreti hollywoodiani. Sì, gli accrediti studenti sono aumentati, quelli da trenta euro, non quelli della diffusione mediatica. La stampa internazionale che fine ha fatto? Articoli di apertura sì, ma presenze fisiche a seguire l’evento day by day? Eric Lyman e Deborah Young dell’Hollywood Reporter, che fanno comunque base in Italia, e poi? Jay Weissberg di Variety, anche lui romano d’adozione? Quanti giornalisti hanno fatto trasferta per seguire l’evento? Olivier Seguret che l’anno scorso scriveva su Liberation “il mito di Roma è rinato” dov’era quest’anno?
Al Festival di Roma delle belle scoperte ci sono state, come il film del cinese Cui Jian, già star nel suo Paese, che ha vinto una meritata menzione speciale. La giuria poi, escluso il primo premio su cui lo stesso James Grey sembra aver accennato un dissenso, ha fatto un ottimo lavoro, con una spartizione equa e giusta tra quella che era l’offerta. Per una cosa almeno questo festival sarà ricordato: le lacrime commosse del direttore di fronte alla vedova German.
Si spera in una lunga permanenza di Muller al Festival di Roma: se non riuscirà lui con le sue doti strategiche a elevare le sorti di questo festival, nessuno sarà in grado di farlo. Magari sulla scia di quest’anno riuscirà a imporsi maggiormente sulle scelte di quelli più potenti di lui, politici e finanziatori, e avremo finalmente il festival che lui immagina e che noi vogliamo, impresa che richiede ben più di due anni.
Il cinema, si sa, è come il vino, va ad annate. Meno male che questo volge al termine e possiamo sperare nel prossimo.
Federica Polidoro
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