Fuga di cervelli. Un fenomeno statistico e sociologico raccontato da Alessandro Rosina
Abbiamo conversato con Alessandro Rosina, docente di Demografia e Statistica sociale dell’Università Cattolica di Milano e presidente dell’associazione ITalents, organizzazione che punta a creare una piattaforma permanente di contatto fra i talenti italiani che sono emigrati all’estero, trovando migliori condizioni per lo sviluppo della loro carriera professionale. Il suo punto di vista ci restituisce la dimensione e sviluppo di un fenomeno sempre più evidente nel nostro Paese.
Qual è la definizione esatta del fenomeno “fuga dei cervelli”?
La crescita della mobilità per studio e lavoro è del tutto coerente con i processi di sviluppo di questo secolo. La possibilità di viaggiare con tempi e costi contenuti si è enormemente ampliata, ma è cambiato anche l’atteggiamento delle nuove generazioni. I giovani sono sempre più globalizzati, più propensi a spostarsi, a interagire e confrontarsi con culture e realtà diverse. Hanno nel loro Dna la voglia di interagire con un mondo più ampio rispetto al quartiere di nascita. È inoltre cresciuta la consapevolezza del fatto che la mobilità per studio e lavoro è in sé positiva, perché consente di arricchire le proprie esperienze, di ampliare la rete di relazioni, stimola il senso di autonomia, l’apertura mentale, la voglia di mettersi in gioco.
L’ideale per un Paese non è quindi la situazione di mobilità zero. È sbagliato infatti cercare di ingabbiare i propri talenti. D’altro canto, però, anche la fuga unidirezionale non è auspicabile, perché depaupera il luogo di partenza. La condizione ottimale è invece la circolazione, cioè la possibilità di poter andare, ma con la stessa facilità poter fare il percorso inverso e tornare.
Il problema dell’Italia non sono i tanti di valore che se ne vanno, ma i pochi che fanno il percorso inverso. Questo impoverisce il nostro Paese e lo fa entrare in una spirale negativa. Non a caso, i Paesi più dinamici e competitivi considerano strategiche le politiche di attrazione di giovani di qualità e riconoscono come veri e propri investimenti tutte le opportunità a essi fornite.
Entriamo nel merito: quali sono le destinazioni, i numeri, la tipologia di professionalità del cervello in fuga?
I dati Ocse evidenziano come l’Italia sia stato negli ultimi quindici anni l’unico grande Paese europeo a presentare un valore negativo del tasso di scambio di individui altamente qualificati (OECD 2005). Secondo i dati Istat, nel primo decennio di questo secolo a cancellare la propria residenza in Italia sono stati oltre 300mila cittadini.
Ma oltre al dato quantitativo è soprattutto da notare che la componente di emigrati maggiormente cresciuta nel tempo è stata proprio quella dei giovani più qualificati. L’incidenza dei cittadini laureati sul totale dei trasferimenti di residenza per l’estero è infatti più che raddoppiata, salendo dall’11,9% del 2002 al 27,6% del 2011. Le destinazioni principali nel 2011, anno più recente disponibile, sono state nell’ordine: Germania, Svizzera, Regno Unito, Francia, Stati Uniti. Ma rilevante è anche il flusso verso i Paesi emergenti in forte crescita, come Brasile, Cina, Sudafrica.
Esiste una rete dei cervelli in fuga? Mantengono contatti con l’Italia?
Esistono varie associazioni che a livello locale si occupano di mantenere relazioni tra chi se ne è andato e il territorio d’origine. A livello più ampio, l’associazione ITalents ha proprio come obiettivo mettere in connessione l’“Italia diffusa” andando oltre i confini e mettendo in relazione attiva quando di meglio la ricchezza della cultura del Paese sa esprimere in tutto il mondo.
Da un’indagine condotta nel 2012 da ITalents assieme al Comune di Milano, risulta che la grande maggioranza dei giovani expat italiani (l’87%) è interessato a partecipare con idee, progetti e iniziative al cambiamento e alla crescita culturale del Paese d’origine.
Quanto impatta sull’economia nazionale questo fenomeno? Quanto arricchisce gli altri Paesi?
È difficile misurare i costi del fenomeno. Un aspetto è il “costo fiscale” del brain drain, vale a dire la spesa sostenuta per fornire istruzione a uno studente italiano che poi emigra all’estero. L’approccio più semplice e intuitivo suggerisce di moltiplicare il numero di laureati italiani che hanno lasciato il Paese per il costo sostenuto dal Paese di origine per la loro istruzione. C’è chi fornisce una stima del costo diretto del brain drain in circa 170 milioni di euro l’anno, pari al costo di ogni laureato per quattro anni di istruzione universitaria.
È un calcolo molto approssimativo, che serve solo come ordine di grandezza. Ma è anche solo un aspetto del costo, a cui va aggiunta la perdita di ricchezza che avrebbe prodotto in Italia. Solo in termini di brevetti depositati, I-com (2011) ha calcolato il valore generato dai venti migliori scienziati italiani residenti all’estero: si stima un valore di oltre 800 milioni di euro.
Potrebbe, a suo avviso, una politica integrata che si rivolge al settore culturale richiamare cervelli in patria?
L’attenzione verso la dimensione culturale è molto presente nei giovani talenti italiani emigrati. Sempre in riferimento all’indagine condotta da ITalents con il Comune di Milano, confermata anche da interviste qualitative, uno dei motivi maggiori di fuoriuscita è la ricerca di un contesto in cui le proprie doti e capacità siano riconosciute e valorizzate, in ambito sia creativo che nell’innovazione tecnologica. Se l’Italia, che ha molte potenzialità sul settore culturale, saprà tornare a essere attrattiva e a far diventare la sua ricchezza culturale e creativa un valore aggiunto per la crescita personale, sociale ed economica, avrà senz’altro molte più opportunità di invertire la tendenza del brain drain e del brain waste.
Neve Mazzoleni
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