Galleristi in & out. Gli emigrati
Berlino, Parigi, Pechino, Svizzera, Londra naturalmente, New York. Quando si parla di Italia, il diktat sembra sempre “andare via”. Ma fuori è tutto rose e fiori? E quali sono le motivazioni reali, se parliamo di gallerie d’arte contemporanea, per lasciare il Paese? Ne abbiamo discusso con chi l’ha fatto.
Emigrare, perché qui non c’è niente da fare. Perché l’aria è rarefatta. Perché fuori dai confini del Belpaese l’arte contemporanea non è un linguaggio cifrato, perché l’insieme non schiaccia l’individuo, perché c’è qualcuno che crede nelle idee. Ma anche perché qui da noi, “se non sei inserito, nessuno ti prende in considerazione” e perché le tasse “sono troppo alte”. E così via. Ci eravamo divertiti a incominciare anche la prima puntata di questa inchiesta elencando qualche “luogo comune”. Appartengono a tutti i mestieri e a tutti i settori, non solo quello dell’arte e, in alcuni casi, un fondamento c’è. Ma in realtà abbiamo voluto fare di più: capire le motivazioni dei galleristi che hanno scelto di aprire uno spazio all’estero, interrogando chi ha realizzato questa scelta. Oggi, come non mai, a rischio di incertezza.
Ci sono stati tempi, infatti, in cui andare via significava, almeno nell’immaginario collettivo, sicura riuscita. Forse perché, a fronte di tante storie che non sono state mai raccontate, ci sono stati personaggi leggendari del calibro di Gian Enzo Sperone, con la sua mitica galleria di New York, che abbiamo lungamente narrato in una importante intervista su Artribune Magazine #6. Il mondo dell’arte – artisti, curatori, galleristi e così via – si vestiva, quindi, da emigrante e andava a cercare l’America naturalmente in America. Poi la realtà ha, invece, fratturato molte ossa e sogni, benché qualcuno qui in Italia favoleggiasse di una New York-Bengodi, esortando eserciti di artisti a partire. Ma il cliché è rimasto, nonostante gli assi si siano non solo spostati, bensì frantumati in una visione pulviscolare che ha diffuso gli epicentri dell’arte e del mercato in tutto il mondo, a volte in territori addirittura sconosciuti, inediti e inesplorati. Sono nati, in epoche differenti, i fenomeni Berlino, Cina, Bruxelles, Istanbul, con “corsi e ricorsi” dell’arte che hanno salvato due soli stereotipi: l’Italia, almeno per ciò che concerne il contemporaneo, non occupa una posizione centrale nel dibattito internazionale, ma gli italiani hanno grande talento e sono viaggiatori.
E se la regola oggi, soprattutto nel mercato, è che non esistono regole, può esser anche vero che chi intraprende una scelta di questo tipo lo faccia non necessariamente per rispondere esclusivamente a esigenze economiche, ma anche per dare voce a un’urgenza diversa, a volte interna (necessità dettate dalle ricerche degli artisti con cui si lavora, il percorso che si propone), altre esterna (il desiderio di relazionarsi con un contesto differente). Ad esempio Daniele Ugolini, owner di Scaramouche a New York, commenta: “La mia è stata una scelta provocata da vari fattori: innanzitutto Firenze professionalmente mi aveva stufato e aprire uno spazio a New York, oltre che darmi entusiasmo, era la prospettiva più ovvia da seguire, dato che lì avevo già una moglie, due figli e il mutuo-casa da pagare. New York e l’America sono ancora un serbatoio enorme per il mercato dell’arte, dove anche le più giovani fondazioni o i piccoli musei locali danno un valido contributo a tutto il sistema. Obiettivamente di criticità a New York nel mondo dell’arte non ne riscontro così tante, soprattutto rispetto a questa Italia di oggi; tutto qui è strutturato in maniera più ampia e dinamica e ci sono ancora buoni capitali che girano. Sicuramente però ho trovato una competitività altissima. Tutti sono molto preparati e, per chi vuole emergere a certi livelli, la sfida non si presenta certo facile”.
Paolo Erbetta, gallerista a Foggia fino al 2012, dopo una lunga attività decide di trasferirsi a Berlino: “Ho pensato a questa città”, ci dice, “perché, fin da subito, mi è sembrato il luogo adatto a offrire le migliori prospettive per il mio lavoro; in primis per la possibilità di mantenere vivo l’entusiasmo di continuare a lavorare con giovani artisti. Ho aperto a fine settembre 2012, pertanto non ho ancora avuto modo di farmi un’idea precisa dei punti di forza e delle criticità del mercato rispetto a quello italiano. Credo di aver capito che i tedeschi sono cauti nell’instaurare contatti; ma questo, a mio avviso, non può che essere garanzia di eventuali rapporti più solidi”. Da Berlino ci parla anche Rolando Anselmi, la cui storia è meno recente. Da Roma, dove insieme a Carlo Pratis era tra i fondatori di Galleria Delloro, si sposta nel 2011 a Berlino, dove inaugura uno spazio che porta il suo nome. “Ciò che mi ha spinto a spostare la mia attività di gallerista a Berlino”, racconta, “non è propriamente una ragione di mercato. Al contrario, è una ragione legata alla specifica collocazione geografica della città, che fa di Berlino un continuo crocevia di itinerari legati alla produzione e alla disseminazione dell’arte contemporanea, una ineguagliabile sinergia tra forze esterne ed energie autoctone, che rende estremamente stimolante la quotidianità di questo lavoro, obbligandoci a confronti culturali sempre nuovi e sensibili agli scenari internazionali”. E il mercato? “È, ad oggi, ancora di difficile interpretazione. È senza dubbio un mercato giovane e in divenire. Tuttavia, la vicinanza di mercati più forti e strutturati, come quelli legati all’area più occidentale della Germania e dell’Europa, e la presenza allo stesso tempo di terreni più nuovi e ricettivi come quelli legati all’area nordica o a quella est europea, fa sperare in un sano costituirsi di una nuova cultura del collezionismo, capace di rinnovare se stessa e di riaffermarsi, così come le nuove istanze e i nuovi linguaggi dell’arte e della società contemporanea”.
Mentre Erbetta ed Anselmi raggiungono Berlino da un’esperienza di galleria precedente in Italia, Mario Mazzoli, pur conoscendo bene il lavoro nel nostro Paese, muove i suoi primi passi direttamente in Germania. I motivi della scelta? “Una volontà di riavvicinarmi all’Italia rispetto alla mia residenza precedente, negli Stati Uniti. La comodità logistica di Berlino, in quanto molti degli artisti con cui collaboriamo vivono e lavorano qui. E poi i costi moderati della città”. Quando si parla di mercato, però, e di cosa distingue il Belpaese dalla Germania, Mazzoli non ha dubbi: “Beh, è semplice: regime fiscale agevolato per l’arte (Iva al 7%, contro il 21% italiano), un’economia, almeno per ora, solida, con un collezionismo ancora molto attivo (e non spaventato da recenti politiche economiche/fiscali come nel nostro Paese), e un grande sostegno delle istituzioni verso l’arte. L’unica critica: un atteggiamento non sempre ‘positivo’ verso realtà extra-nazionali”.
Il problema della pressione fiscale viene posto anche dall’America, è ancora Daniele Ugolini a parlare: “In Italia, continuando ancora con queste infelici regolamentazioni fiscali e con il sempre più raro supporto da parte delle istituzioni, il mercato dell’arte andrà progressivamente a ridursi, facendo scomparire tante gallerie, operatori, e soprattutto limitando lo sviluppo futuro dei nostri artisti e della nostra cultura”. Si tratta di una questione nodale, che non interessa solo le gallerie, coinvolgendo artisti, collezionisti, l’intero artworld e il problema della promozione culturale, e che vede l’Italia tra i pochi Paesi europei che applicano tassazioni oltre il 20%, contro percentuali che spesso non superano il 10% e che, oltre a bloccare il mercato, rendono i nostri artisti sempre meno competitivi a livello internazionale.
In Inghilterra incontriamo, invece, Isabella Brancolini e Camilla Grimaldi, insieme per dieci anni a Firenze e Roma, e dal 2011 a Londra. “Nel corso della nostra esperienza in Italia”, spiegano, “abbiamo costruito e fidelizzato un forte gruppo di collezionisti. Ma il mercato italiano non è mai stato il solo a cui ci siamo rivolte. Viaggiando e attraverso una regolare partecipazione alle fiere internazionali, abbiamo creato forti connessioni con molti collezionisti negli Stati Uniti e in Europa. Ecco perché ha senso, oggi, essere a Londra, punto d’incontro per collezionisti provenienti da tutto il mondo. Lavoriamo, inoltre, moltissimo con la fotografia e questa è un’altra ragione per essere qui. A New York ci sono centinaia di gallerie che si occupano di fotografia, a Parigi sono circa 50, mentre a Londra non ce ne sono così tante. È un mercato giovanissimo per questo settore, ma ci sono moltissimi spazi pubblici che, invece, sono interessati ad esso e noi intratteniamo una feconda relazione con i loro direttori e curatori. In UK c’è un forte dialogo tra pubblico e privato, molto più che in Italia. La Tate Modern ha un curatore che si occupa in maniera specifica di fotografia, Simon Baker; il Barbican e la Whitechapel hanno presentato importanti mostre negli ultimi anni. Insomma, sembra un buon periodo per la fotografia a Londra, e speriamo che lo sia anche per la nostra galleria”.
Un’esperienza differente caratterizza i percorsi di Monica De Cardenas e Galleria Continua. In questo caso non si tratta di attività che hanno lasciato l’Italia per ricollocarsi altrove, né di gallerie che hanno scelto di inaugurare il proprio progetto di impresa in un Paese diverso dal nostro. Qui, come è noto – e, in un certo qual modo, un’esperienza analoga è almeno in origine anche quella di Pièce Unique – si tratta di gallerie che hanno “espanso” la propria attività all’estero, pur conservando “la testa” in Italia. Monica De Cardenas fonda la galleria a Milano nel 1992, nella sede che tuttora occupa. La decisione di inaugurare la seconda sede a Zuoz / St. Moritz, in Svizzera, è del 2006 e afferisce soprattutto a tre motivazioni, come racconta Filippo Percassi, direttore dello spazio: “La prima è che Monica De Cardenas è svizzera da parte di madre e che ha studiato prima in Engadina, dove è stata aperta la seconda sede, e poi a Zurigo, dove ha frequentato l’università; la seconda ragione è che la Svizzera vanta straordinarie collezioni pubbliche e private: non a caso è sede della più importante fiera d’arte; la terza è che, in un clima rilassato di vacanza, i collezionisti vengono volentieri e con tranquillità in galleria. Volendo poi aggiungere motivazioni e ragioni, è facile evidenziare che allo stato attuale delle cose è più facile lavorare all’estero. Il mercato italiano, per ovvi motivi, rischia la paralisi. Diventa quindi indispensabile muoversi altrove. In verità le motivazioni dell’apertura della sede in Svizzera non erano da collegarsi direttamente alla situazione italiana. La galleria ha infatti aperto nel 2006, in un momento di relativa stabilità. Si è poi rivelata una scelta azzeccata. Soprattutto perché oggi diventa sempre più importante l’aprirsi a nuovi mercati fuori dall’Europa, che sta oggi vedendo una situazione realmente asfittica. Non avendo mai creduto nei mercati asiatici (tempi di risposta troppo lunghi e cultura troppo differente) siamo più propensi a orientarci verso il Sudamerica. Motivo per cui partecipiamo ad Art Rio”.
L’Asia ha attratto, invece Galleria Continua, oggi presente nel mondo con le famose location di San Gimignano (dal 1990), Beijing (2005) e Le Moulin (2007). “È stata la voglia di lanciarci in nuove avventure a portarci ad aprire in Cina e in Francia”, dicono Mario Cristiani, Lorenzo Fiaschi e Maurizio Rigillo. “Abbiamo subito il fascino di questi luoghi abbandonati, carichi di storia, pronti a rinascere attraverso l’arte. Galleria Continua Beijing ha sempre avuto un orientamento più culturale e informativo che non commerciale. Il mercato cinese è ancora affollato da speculatori e investitori, ma oggi ci troviamo di fronte a un numero sempre maggiore di interlocutori attenti, in grado di valutare le nostre proposte per quello che sono rispetto al panorama internazionale dell’arte contemporanea”.
E forse questo è uno dei lati più interessanti dell’intera questione. Certo, Berlino come abbiamo letto presenta vantaggi desiderabili in termini di costi, di pressione fiscale, come New York, anche se per il resto è “molto cara”. Quanto Parigi, del resto, che però – e Londra non è da meno – presenta una sistema dell’arte vivace e ricco di opportunità. E, alle brutte, la valigia nell’armadio per viaggiare, cercare mercati più propizi, per promuoversi e partecipare alle fiere, anche in luoghi prima impensabili, è sempre pronta. Allora perché trasferirsi? La risposta che ci siamo dati è che l’impressione che si ha fuori dall’Italia è quella che sia ancora possibile fare impresa, che ci sia ancora fiducia nei confronti del mercato e delle istituzioni, che il dialogo tra pubblico e privato sia sano e vivace, che le capitali di cui abbiamo parlato siano veramente capitali, inserite e proiettate nel contesto internazionale. E questi sono fattori che non si comprano con il denaro ma con l’impegno, con il tempo e con una visione a lungo termine, che poco ha a che vedere con la cultura dell’emergenza che da sempre, oggi più che mai, attanaglia l’Italia. E che, al di là dei luoghi comuni, quando si valuta un trasloco possono fare la differenza. E così, anche in questo ambito, in mancanza di cambiamenti il Belpaese rischia una desertificazione imprenditoriale: chi ce la fa si trasferisce, chi non ce la fa chiude. Spazi per invertire la rotta ci sono, volontà di percorrerli sembrerebbe di no…
Santa Nastro
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #15
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