I cani e i lupi. Un tour d’autore fra gli stand di Artissima
L'idea di questa mostra virtuale, la terza dopo le due “deviazioni” realizzate per ArtVerona 2013, proviene dall'ultimo romanzo di Irène Némirovsky, scrittrice francese di origini ucraine ed ebraiche, intitolato “Les chiens et les loups”, pubblicato a Parigi nel 1940. Una selezione curata da Veronica Liotti e Stefano Franchini.
Con ispirata eleganza e acume psicologico, in Les chiens et les loups Irène Némirovsky delinea due tipologie umane classiche, profondamente affini e insieme radicalmente diverse: il cane domestico, obbediente, fedele, mansueto, protettivo, e il lupo selvatico, indipendente, violento, inaffidabile, aggressivo. “Harry”, scrive Némirovsky, “alzò gli occhi e riconobbe la bambina intravista due anni prima, la bambina scarmigliata, sudicia di polvere, con le mani graffiate, che era saltata fuori da un mondo spaventoso, ripugnante, un mondo di sudore, di sporcizia e di sangue, così lontano da lui eppure, in un certo modo misterioso e temibile, a lui affine. Gli si rizzarono i capelli in testa, come a un cagnolino, ben nutrito e curato, che sente nella foresta l’ululato famelico dei lupi, i suoi fratelli selvaggi. Indietreggiò di scatto. […] Ai suoi occhi non rappresentava tanto la povertà, quanto – ed era questo a farlo tremare davanti a lei – la disgrazia, una disgrazia stranamente e sinistramente contagiosa, come può esserlo una malattia”. Questi timori tipicamente “borghesi”, questo impasto emotivo di angoscia e attrazione, negazione e fascinazione di fronte alla natura selvaggia e al suo potere seducente, trova una sorta d’icona perenne negli occhi della ragazzina palermitana immortalata da Letizia Battaglia nel 1980, nella quale vorremmo vedere incarnata la piccola Ada del romanzo.
Sovente utilizzate da favolisti, filosofi, scrittori, registi e artisti come metafore o allegorie dell’umano, le figure del cane e del lupo rimandano, in primo luogo, a una matrice zoologica comune, a quel punto originario, primordiale, dove i canis risultano ancora indifferenziati e dal quale si ramificheranno gli esiti evolutivi successivi: lupo, sciacallo, coyote, cane ecc., quest’ultimo soggetto a un lungo processo di domesticazione iniziato già dai cacciatori del paleolitico superiore e definitivamente compiutosi con i contadini sedentari neolitici, il che ha dunque profondamente legato l’animale non solo alla caccia – non a caso in greco antico «caccia» e «cane» hanno la stessa radice etimologica –, ma anche e soprattutto alla civiltà agricola e stanziale, alle greggi e alla pastorizia. La scultura di Richard Nonas (Untitled, 1978), con la sua forma archetipica dall’aura mitologica, rievoca appunto quell’unica origine lontana, indistinta.
Questa profonda affinità, la remote kinship evocata anche da Joseph Conrad in Cuore di tenebra, produce, in secondo luogo, una costante tensione tra cani e lupi, attiva cioè una forza misteriosa e invisibile, che trae indietro il cane – setting his face toward the dephts of the wilderness, direbbe ancora Conrad –, facendolo regredire ai primordi e vanificando in un batter di ciglia l’enorme e lungo sforzo d’incivilimento. Altre volte, invece, quella forza spinge avanti il lupo verso la civiltà, presso la domus: cuccia tiepida e ciotola piena in ogni stagione. Il processo di domesticazione è dunque sempre incompiuto perché in realtà è una soglia metafisica, un ponte stretto e fragile, dove singoli esemplari transitano continuamente in entrambe le direzioni, lasciando un residuo permanente dietro e dentro di sé, di cui però si serba solo una confusa memoria. Essa si schiarisce soltanto in particolari momenti, come ricorda Jorge Luis Borges nel racconto Biografia di Tadeo Isidoro Cruz: “Qualunque destino, per lungo e complicato che sia, consta in realtà di un solo momento: il momento in cui l’uomo sa per sempre chi è”. Il protagonista, incarcerato per un omicidio e punito con il servizio militare obbligatorio, tornato alla vita civile diventa capo della locale gendarmeria, ma durante la cattura di un altro malfattore e disertore accade l’imprevedibile: “Mentre combatteva nell’oscurità (mentre il suo corpo combatteva nell’oscurità), cominciò a comprendere. Comprese che un destino non è migliore di un altro, ma che ogni uomo deve compiere quello che porta in sé. Comprese che le spalline e l’uniforme ormai lo impacciavano. Comprese il suo intimo destino di lupo, non di cane da gregge”.
Questa connaturata ambivalenza della coppia cane-lupo, la cui forza simbolica e primigenia investe in pieno la definizione di “natura umana”, trova il suo simbolo letterario più fulgido nella sorte speculare dei due cani più famosi usciti dalla penna di Jack London: Buck, il cane protagonista di The Call of the Wild (1903), che si unisce ai lupi, e White Fang (1906), il lupo che si lega al difficile e brutale mondo umano, spesso non meno violento di quello selvaggio. Una recente rielaborazione di questa ambigua relazione dialettica è raffigurata con eleganza Biedermeier e con subliminale violenza da Mat Collishaw nell’opera Children of a Lesser God (2007). Nello squallore urbano e nel degrado morale che costituiscono uno dei lati selvatici della nostra civiltà occidentale ovvero occidentalizzata, i due neonati (evidente allusione a Romolo e Remo) sono tutelati (e accerchiati) da due cani-lupo, i quali, sostituendo la mitologica bestia all’origine della latinità, rispecchiano il duplice istinto, protettivo e insieme aggressivo, che continua a connotare la loro intima natura.
Mirabilmente descritto nel romanzo breve di Thomas Mann Padrone e cane (1918) e ripreso nel video intimista e personale di Chiara Camoni (Autoritratto, 2013), il forte legame di fedeltà che può instaurarsi tra uomo e cane vive in una natura benigna, ordinata e domata, associata a luoghi familiari, accessibili, “trasparenti”. I delicati e luminosi boschetti in miniatura realizzati da Christiane Löhr (Drei Kuppeln, 2008) ben rappresentano le mete predilette per le consuete passeggiate del protagonista col suo cane Bauschan descritte da Mann. La cuccia di Bauschan, tuttavia, in una casa ai margini della città, si trova, a sua volta, al limitare del bosco, dove l’animale ama dedicarsi alla caccia più sfrenata, destando l’orrore e lo sgomento del tranquillo padrone. Anche Henry David Thoreau, nel suo ritiro incantato presso il lago Walden, di cui la surreale e strampalata video-animazione di Per Dybvig (Hunter Hare Dog, 2009-2010) sembrerebbe offrire una spiritosa raffigurazione, nota l’influenza del luogo selvaggio sul comportamento dei cani: “Talvolta udivo una muta di cani da caccia che correvano in lungo e in largo per tutti i boschi, con grida e latrati pressanti, incapaci di resistere all’istinto […] I boschi vicini risuonavano tutti, attraverso gli alberi, di quel gridare demoniaco” (Walden ovvero Vita nei boschi, 1854).
La domesticazione interiore dell’uomo, il suo incivilimento, strutturalmente precario, procede infatti in simultanea con la bonifica della wilderness esterna attraverso le coltivazioni, l’inurbamento, la deforestazione ecc. Ma il solo contatto con i rari luoghi selvaggi risveglia, nel cane come nell’uomo, il residuo di lupo che cova latente dentro il suo essere. In determinate condizioni e circostanze, infatti, le frontiere categoriali, altrimenti così nette, sfumano: là si nasconde la “disgrazia”, là avviene quel «contagio» evocato dalla Némirovsky. Questa “malattia” è il grande tema di Heart of Darkness, ma anche il nodo problematico affrontato genialmente, per esempio, da Hermann Hesse nel Lupo della steppa o da Jack London nei suoi romanzi maggiori. Il “richiamo della foresta” regressivo e insieme liberatorio è rievocato crudamente dalla fotografia scattata in Alaska da Zoe Leonard (Charlie’s Moose, 1995/98), così come dalle distese polari, regno del Siberian Husky – il celebre cane da slitta dai tratti ancora ferini –, splendidamente immortalate da Armin Linke (Ice pack Artic North Pole, 2001).
Dalla fine del XIX secolo, la diffusione imperialista del progresso su scala planetaria ha sradicato sempre più estesamente la “foresta” fuori di noi, riducendo le occasioni perché il “lupo” dentro di noi trovasse modo di manifestarsi. Ma proprio in quel momento, Sigmund Freud scoprì, attraverso i suoi pazienti nevrotici, tra cui un uomo dei lupi, che l’intimo residuo di wilderness in noi si cela nella sessualità, nella foresta interiore dell’inconscio, nelle profondità biopsichiche del corpo, rimaste per tutto il Novecento e fino all’inizio degli anni Ottanta (grazie alla politicizzazione della psicoanalisi) l’ultima roccaforte dell’inquietudine borghese: la valenza selvaggia e istintuale della libido, che alimenta costantemente il sostrato simbolico dell’inconscio e la cui repressione è fonte di malattia e disagio, aveva già trovato nella novella La Lupa (1880) di Giovanni Verga un’immagine di rara efficacia poetica e tragicità: “Al villaggio la chiamavano la Lupa perché non era sazia giammai di nulla. Le donne si facevano la croce quando la vedevano passare, sola come una cagnaccia, con quell’andare randagio e sospettoso della lupa affamata”. L’affrancamento dell’erotismo dalla morale tradizionale è stato non solo motivo ispiratore dell’arte e della letteratura del Novecento, ma anche strumento di emancipazione sociale, culminata nella nuova consapevolezza dei movimenti femministi negli anni Settanta, di cui l’installazione di Ana Vieira (Santa Paz Domestica Domesticada, 1977), associando alla donna la sfera domestica come dispositivo di domesticazione, offre un’illustrazione sintetica e diretta.
In una manciata di anni, tuttavia, l’accento politico sulla liberazione sessuale è stato rapidamente culturalizzato e privato così del proprio aculeo rivoluzionario, passando dalla sfera del conflitto alla dimensione estetica: un fenomeno programmaticamente documentato dalle lungimiranti fotografie di Jimmy de Sana (Mink Stole, c. 1980). Le espressioni della libido, teatralizzate e sfruttate come prodotto sotto-culturale dall’industria dello spettacolo, ostentate a fini consumistici e, con lo scoppio dell’epidemia di Aids, medicalizzate per il controllo sanitario, hanno cessato di essere l’ultima foresta, l’estremo rifugio del “lupo”. Ogni Stato, nato storicamente e concettualmente dall’abolizione della condizione selvaggia di homo homini lupus, cerca costantemente di costringere la libido e disciplinarla entro limiti ritenuti tollerabili e compatibili con il “sano” e crescente consumo di merci, anch’esso ovviamente indotto e incentivato da stimoli erotici, come sa ogni pubblicitario: una sessualità latentizzata, dunque, che vorrebbe esprimersi ma è legata, proprio come il materasso di Kerstin von Gabain (Futon #4, 2011), oggetto con il quale, al di là delle intenzioni esplicite dell’artista, l’erotismo ha simbolicamente un rapporto elettivo.
La violenza drenata e monopolizzata dallo Stato grazie agli organi di polizia, all’esercito, alla morale perbenista – la graffiante fotografia di Francesco Jodice (What We Want, Jerusalem, R31, 2010) ha il pregio teorico di riunire l’obbedienza del militare alla funzione pastorale del religioso – è artificiale, sempre calcolata, regolata e “organizzata”, proprio come quella della criminalità, mentre la violenza del lupo è diretta, solitaria, spontanea e rischiosa perché contingente (come ci ricorda con ironia e leggerezza il bandito di Marcel Dzama). Essa introduce caos e sgomento nell’ordine del discorso conformista, come mostra la provocatoria Aktion di Ulay del 1976 (There is a Criminal Touch To Art): il furto di uno Spitzweg dalla Nationalgalerie di Berlino. Analogamente, con un gesto meno eclatante ma altrettanto dissacrante, l’artista cinese Hu Yun chiede al collezionista di liberarlo dal guinzaglio del mercato (Buy us, Burn us, Free us, 2011).
Vorremmo concludere il nostro percorso con una domanda semplice e diretta: dove si nasconde oggi il lupo? Dove ritrovare quella wilderness che sembra evaporata nel nulla? È possibile che l’umanità intera si adatti a vivere conformemente all’obbedienza e alla fedeltà del cane da pastore? La foresta morta, fotografata in Siberia nel 2007 da Darren Almond, sembra la perfetta raffigurazione del panorama attuale: scacciati i lupi subentra una statica desolazione priva di slancio. Infine, l’incisione monumentale ma anti-celebrativa FREEDOM SUCKS del collettivo Famed (2013) non intende denigrare ciò che Conrad definì a thing monstrous and free, ma critica frontalmente la libertà condizionata e politicamente corretta del cane addomesticato, già parodiata alla fine degli anni Sessanta da Valie Export (Mappe der Hundigkeit, 1968) con una performance che conserva tuttora la sua estrema e dirompente attualità.
Veronica Liotti e Stefano Franchini
http://deviazioneartverona.blogspot.it
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