Il-primo-articolo-fatto-solo-di-commenti
Gian Maria Tosatti porta a Napoli la prima tappa del suo nuovo ciclo di opere, intitolato “Le sette stagioni dello spirito”. Apriti cielo: sotto l’articolo che ne parla, a firma di Antonello Tolve, piovono i commenti. E proprio a questi è dedicato l’articolo di oggi della rubrica Inpratica.
Sono capitata per caso in questa conversazione surreale.
L’articolo me lo ero perso, peccato, ma l’ho recuperato
vedendo che era il più commentato. Ma davvero avete
parlato così tanto di un’opera che non avete visto?
Antonia D. P., 5 novembre 2013, 00.58
Il progetto nella chiesa è debole per le ragioni sopra descritte.
Se qualcuno pensa il contrario si faccia avanti.
Luca Rossi-Whitehouse
Quindi il risultato di questo tuo ragionamento è che non occorre vedere un’opera per criticare un’opera, ma bastano le sue riproduzioni (soprattutto poi per un lavoro ambientale, installativo e ‘atmosferico’ di questo tipo): complimenti, mi sembrano davvero ottime basi per rifondare radicalmente la critica d’arte, come dici sempre di voler fare. (“Se vengono messi foto e video di una mostra” non “significa che la mostra si può vedere da casa”, ma significa che hai a disposizione degli strumenti, dei supporti – oltre il testo – per farti un’idea vaga, approssimativa della mostra o dell’opera; poi vai e te la vedi di persona, almeno se vuoi essere in grado di formarti un giudizio ragionevole su quell’oggetto – basato sull’esperienza diretta, materiale, umana. Sarebbe come dire che puoi scrivere la recensione di un film solo guardando il trailer e gli still, o esprimere un parere critico su un libro semplicemente basandoti sulla quarta di copertina: il fatto che queste oggi rappresentino – come sospetto – proprio alcune delle pratiche più diffuse non fa altro che dimostrare, ancora una volta, il contagio capillare e profondissimo della “peste”, e non può esserne in nessun caso la “cura”.)
Di persona ti renderesti conto, molto probabilmente, del rapporto che ha quest’opera ha instaurato e sta instaurando con il suo contesto, di quante e quali persone si mettono in fila ogni giorno per fruirla, di che cosa veramente significa e del tipo di impatto che ha su di te indipendentemente dai video e anche da quello (eventualmente) che è riportato nell’intervista, ecc. Il “problema dell’Italia” è esattamente questo: la mediazione. Di ogni esperienza e di ogni fruizione e di ogni interpretazione.
Un dialogo, una conversazione per essere tale presuppone la disponibilità da parte di ognuno dei partecipanti di farsi modificare, trasformare in maniera impercettibile da questo processo. Ora, mi sembra invece che qui il tentativo sia sempre e comunque quello di demolire a priori – ripeto: senza un’esperienza diretta, materiale, umana – un’opera (qualsiasi opera?). E questo è il contrario della critica: anzi, il contrario di ogni interpretazione. Non è un’interpretazione. È qualcos’altro, che mi sembra a suo modo molto interessante: voler a tutti i costi giudicare le opere e le operazioni degli altri usando la propria opera e la propria operazione come unico criterio, come unico metro di validazione e legittimazione.
È qualcosa tra l’altro che periodicamente affiora nel nostro carattere nazionale; qualcosa che presuppone l’esclusione dell’altro (IO! IO! IO!), della percezione e del pensiero che la storia possa andare – come è andata, più volte… – in una direzione diversa da quella che pensiamo noi. È una sorta di rispecchiamento ossessivo, in cui nel mondo esterno vediamo solo e soltanto noi stessi. La validità di un’opera d’arte, di un libro, di un film va forse cercata in un sistema di valori che sia al tempo stesso fuori e dentro di noi, che vada cioè molto oltre il “mi piace” facebookiano.
Detto in altre parole: non solo non è detto che su ciò che uno fa vada misurato tutto il resto, praticamente ogni cosa (questo punto di vista non porta e non porterà secondo me a grandi risultati di interpretazione); ma il senso della “scoperta”, e perfino il gusto di farsi “sorprendere” (da qualcosa, per esempio, che in base al nostro gusto e alle nostre convinzioni non dovrebbe attirarci, ma che ci attrae) si perde totalmente, se poi il risultato finale è: “anche Tosatti è un giovane Indiana Jones” (a ‘sto punto, uno potrebbe benissimo dire che Picasso nel 1907 era un “giovane Indiana Jones”: ma quando le etichette diventano onnicomprensive, solitamente sono abbastanza inutili). Guardare oltre il proprio naso – guardare – può essere un buon punto di partenza per ogni tentativo di ricostruzione o di “guarigione”.
Christian Caliandro
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati